Dissertazione tesi 04 luglio 2023
La cornice concettuale che abbiamo delineato mira a comprendere il movimento corporeo come un dialogo dell’io. La nostra indagine ha avuto inizio con la premessa fondamentale che l’io sia un soggetto incarnato, un dialogo e una pratica. Questa premessa è stata assunta grazie alla ricerca effettuata nei primi due capitoli, che hanno come fulcro Schütz (Vienna, 1899 – New York, 1959 è stato un filosofo e sociologo austriaco) e in particolare la sua fenomenologia del mondo sociale, che, attraverso la sua prospettiva dinamica e relazionale, posiziona l’individuo all’interno del mondo della vita quotidiana e stabilisce connessioni con gli altri e con il mondo circostante. Ne abbiamo evidenziato un correlato prima con la fenomenologia dell’alterità di Husserl (1859-1938) e, nello specifico, con la sua concezione di corpo vissuto e poi con la concezione pragmatica dell’io di Larmore (1950, filosofo statunitense); concludendo con un collegamento all’io dinamico di Arendt (1906-1975 politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense in seguito al ritiro della cittadinanza tedesca nel 1937), la cui caratteristica è la pluralità, un soggetto che realizza la sua struttura relazionale nell’azione, la quale si attua nello spazio pubblico.
Dunque, i risultati emersi dalla nostra analisi delineano un quadro dell’individuo come un essere incarnato, immerso nella trama della vita quotidiana, che sperimenta attraverso il proprio corpo; quindi, un io che non può prescindere dalla dimensione corporea per esprimere la propria identità pratica in quello che è lo spazio politico quotidiano. Un soggetto che si assume la responsabilità delle proprie decisioni e attraverso le sue azioni, che influenzano il contesto sociale in cui si trova, costruisce se stesso. Un io che è relazionale, politico, pratico e lo è attraverso il corpo di cui il movimento è un’espressione. E non può essere altrimenti, in quanto non esiste un vero utilizzo del corpo senza il movimento, basti pensare alla fisiologia, alla biochimica cellulare: il corpo è movimento fin dai primi battiti e dai primi respiri. È la dimensione corporea, a nostro avviso, a permettere l’espressione politica degli individui; perché già dalla nascita siamo relazione e questa relazione permette di essere non più solo io ma noi. Come afferma Schütz
“Finché l’uomo nasce dalla donna, l’intersoggettività e la relazione-del-Noi saranno la base di tutte le altre categorie dell’esistenza umana.” (A. SHUTZ, Husserl e il problema dell’intersoggettività) Ma la prima relazione del bambino con la madre, ancor prima di nascere, è, nel grembo materno, fisica ed emotiva insieme.
In questo quadro filosofico, si delinea un concetto di movimento come dialogo dell’io fin da subito, e non potrebbe essere altrimenti perché, fin dalla nascita, il movimento è richiamato sulla scena politica. Infatti, il neonato comunica con il mondo che lo circonda attraverso il suo corpo in movimento. Questo dialogo corporeo iniziale è fondamentale per stabilire una connessione con i genitori e gli altri caregiver, che rispondono con gesti, carezze e sguardi amorevoli. Man mano che il bambino cresce, il movimento diventa il principale mezzo di interazione con l’ambiente circostante, grazie al quale esplora il mondo afferra gli oggetti. In questo modo, il bambino instaura un dialogo intimo con gli oggetti e il mondo fisico. Dunque, stiamo affermando che il movimento è da subito un dialogo dell’io, perché sin dalle prime fasi della vita, come dice Schütz, l’individuo, inserito in una rete di relazioni e interazioni sociali, è già un individuo sociale. Secondo le parole di Ivano Gamelli (1957 professore associato di Pedagogia generale), “l’essere in relazione con” è la condizione fondamentale di cui il corpo e la gestualità svolgono un ruolo centrale. Questa relazione definisce la nostra presenza e il nostro coinvolgimento nel mondo.
A questo proposito, abbiamo analizzato il concetto di propriocezione e le discipline che ne mettono in evidenza il significato relazionale e dinamico, cercando una correlazione tra queste e la fenomenologia, da cui siamo partiti. La propriocezione rappresenta la capacità di percepire e consapevolizzare la posizione e il movimento degli arti e del corpo nello spazio, è un senso che si ha indipendentemente dal poter o meno osservare il proprio corpo e che riguarda sia il senso di posizione statica degli arti sia il loro senso di movimento. Prendendo spunto dalla percezione intesa da Merleau-Ponty come esperienza primaria della coscienza, noi proponiamo un concetto di propriocezione come esperienza primaria del proprio corpo, la prima relazione grazie alla quale il soggetto esperisce il proprio corpo e si trova in costante relazione con esso e col mondo intorno a sé. Dunque, la propriocezione è un atteggiamento assunto che, per il fatto stesso di “essere nel mondo” fisicamente, stabilisce un rapporto tra il corpo e l’ambiente che lo circonda; è una dinamicità (anche la postura = equilibrio dinamico) che dà all’io una possibilità continua di relazionarsi con se stesso e il mondo, che è già realizzata e che si sta realizzando in un continuo esserci e divenire. È per questo che definiamo la propriocezione come il senso che permette all’io di essere queste relazioni tutte insieme, perché, sente il proprio corpo e, contemporaneamente, è già nel mondo in relazione con esso e con gli altri. Il corpo, in questo senso, non è solo un corpo proprio, ma è un corpo proprio-cettivo, il quale non necessita dell’esperienza del contatto (o della vista) per costituirsi come soggetto in carne e ossa. È si un corpo che si trova tra i corpi del mondo, ma è anche il corpo che si sente, l’unico che l’io percepisce intimamente. (→Husserl). Quindi, la percezione conferma che il soggetto è incarnato e che, come afferma Schütz, è già calato in un contesto sociale.
E a sostegno di questa tesi, abbiamo accennato al caso del neurologo Oliver Sacks (1933-2015 neurologo e scrittore britannico), che nel suo libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, pubblicato nel 1985, racconta di una sua paziente che ha perso la propriocezione, nel capitolo intitolato “La disincarnata”. La paziente può muoversi, ma non sente più il suo corpo, le manca la relazione con se stessa e per tornare a riconoscersi in quanto corpo deve ricorrere alla vista e all’equilibrio. Abbiamo presentato la relazione propriocettiva dell’individuo per spiegare il suo essere in-relazione e sociale fin da subito e anche in situazioni apparentemente statiche, per avvalorare la nostra tesi per cui il soggetto è relazione già a partire da se stesso, è dialogo anche quando si trova in solitudine in un certo luogo, ed è dinamicità anche laddove lo vediamo immobile.
Prendendo, invece, in considerazione un ambiente pubblico in cui l’individuo non è più da solo, la relazione che si instaura non è più solo tra lui e lo spazio circostante. Seppure immobili (cosa fisiologicamente impossibile abbiamo già detto), i corpi sono in relazione tra loro per il fatto stesso di condividere uno spazio comune, con cui ognuno di loro è in un rapporto a partire dalla propriocezione. Se consideriamo questi corpi muoversi, anche nella semplice gestualità, allora questa relazione si stringe, si intensifica. Dalla gestualità al movimento più complesso, la relazione propriocettiva con se stessi e con l’ambiente diviene tela di relazioni, che ogni soggetto ha con se stesso e con gli altri, intrecciate tra loro nel mondo che condividono. Attraverso l’approfondimento delle pratiche corporee, come il metodo Feldenkrais e Pilates, abbiamo dimostrato che la propriocezione non è un dato immediato, come potrebbe sembrare apparentemente, ma è un senso che si produce, che si allena. L’io è un dialogo e la propriocezione è un esercizio che costruisce il sentirsi dell’io. Questo esercizio lascia percepire all’individuo il “corpo proprio”, non come dato per scontato, ma rivolgendo su di esso l’attenzione focalizzata. Il senso ricercato della propriocezione porta alla luce come non vi sia un vero “uso” del corpo senza il movimento e come questo consenta lo sviluppo di una consapevolezza di sé come individuo e come soggetto relazionale, sia con se stesso che con l’ambiente circostante. I metodi Pilates (è stato un inventore e insegnante di ginnastica tedesco) e Feldenkrais (un ingegnere, fisico, judoka e pedagogista somatico di origine ucraina) portano evidenza del concetto husserliano di corpo vivo, ma inquadrandolo, secondo noi, nelle prospettive relazionali e pratiche di Schütz e Larmore, perché allenano la propriocezione e divengono, per questo, strumenti concreti per la costruzione, la pratica e l’esercizio di una sensibilità verso il proprio corpo. Queste discipline combinano esercizi di movimento lenti e consapevoli con attenzione rivolta all’esperienza interna del corpo e permettono a ciascun individuo di impegnarsi in una fenomenologia vissuta, per sviluppare le prestazioni sportive ma anche per scoprire nuove possibilità di movimento nella quotidianità, nonché l’ascolto delle sensazioni e delle risposte del corpo. La consapevolezza intima con se stessi, che questi metodi portano alla luce, richiama la connessione con lo psichico di cui il corpo vissuto è dotato (a differenza del corpo oggetto); affermano, così, un soggetto che percepisce attraverso il corpo la relazione con se stesso e il mondo esterno e con l’alter ego. Questo è reso possibile attraverso la relazione di guida e sostegno tra il praticante e il terapeuta/insegnante o allenatore che diviene l’alter ego della relazione motoria o sportiva. Questa relazione si è dimostrata importante per un’analisi fenomenologica del movimento. Infatti, l’insegnante guida il processo di esplorazione e apprendimento del movimento, facilitando il dialogo tra il praticante e il proprio corpo, offrendo suggerimenti e stimoli per favorire una maggiore consapevolezza e un’esperienza più ricca del movimento, attraverso il cueing. Questa tecnica consiste nell’utilizzo di istruzioni verbali, visive e tattili per fornire indicazioni precise sui movimenti da compiere, sulla corretta postura e sull’allineamento del corpo. L’insegnante può utilizzare anche il proprio corpo come modello, eseguendo gli esercizi insieme agli allievi per illustrare correttamente i movimenti e l’allineamento. Il cuing stabilisce una relazione, e attraverso il cuing tattile l’insegnante/allenatore entra in contatto corporeo diretto con l’allievo. Un corpo a corpo che inquadra la relazione allenatore/atleta in una prospettiva fenomenologica, evidenziando la dimensione intersoggettiva di queste discipline e dello sport. Il concetto del cuing tattile in questa tesi è un punto importante di collegamento con Husserl, in quanto è attraverso il tatto che si manifesta il corpo proprio in “carne e ossa”, e il corpo si dà come condizione dell’esperienza sensibile.
Le discipline e gli esercizi esposti sono tutti caratterizzati da un elemento comune che è l’uso del corpo, ma soprattutto il movimento del corpo. L’io come pratica è un esercizio che si costruisce attraverso il movimento. Non può esserci un vero uso del corpo senza il movimento, come abbiamo detto, e il movimento, dunque, è la chiave d’accesso per la concezione dell’io pratico, ovvero per conoscere se stessi, in quanto espressione corporea. E per l’io pratico e relazionale questa conoscenza di se stessi riguarda il movimento nei suoi momenti in cui l’esperienza sensibile attraverso il corpo è maggiormente concentrata. E lo sport è testimonianza di questi momenti, in quanto in esso il movimento assume un’aurea etica ed estetica più marcata, più acuta. Ed è per questo che lo abbiamo scelto come caso studio (a cominciare dalla propriocezione di cui abbiamo appena detto).
Abbiamo ritenuto rilevante per la nostra indagine il lavoro del Dott. J. Le Boulch (medico francese, professore di educazione fisica, laureato in psicologia dottore in medicina, specialista in riabilitazione funzionale), soprattutto perché, nel testo che analizzeremo “Verso una scienza del movimento umano”, si riferisce apertamente alla fenomenologia come approccio filosofico e metodologico per comprendere il movimento e l’esperienza corporea nella sua interezza, ponendo l’accento sull’esperienza diretta e sulla consapevolezza soggettiva, mettendo in luce il modo in cui il corpo si manifesta e si relaziona con il mondo circostante. Le Boulch, attraverso la fenomenologia, indaga le esperienze corporee degli individui, la loro percezione del movimento, le emozioni ad esso associate e le modalità di interazione con l’ambiente e propone lo studio dell’esperienza motoria, considerando il movimento come un modo di esplorare e conoscere il mondo. Nel suo testo, affronta in modo interdisciplinare il problema del movimento umano, partendo dal recupero del concetto di corporeità e arrivando a innovazioni radicali nel campo dell’educazione. L’obiettivo è quello di superare la concezione che vede l’educazione fisica occuparsi del corpo-strumento. Basandosi sulla concezione di corpo vissuto di Husserl, Le Boulch concepisce, con il filosofo, la concezione di corpo come un processo continuo di movimenti in cui esso si manifesta e si concretizza e non semplicemente come un insieme di parti interconnesse. E da qui, secondo noi, trae la sua idea unitaria di movimento, e dichiara di non voler studiare il movimento in modo frammentario ma di partire dallo studio dei “gesti del corpo, come manifestazione della presenza nel mondo”. Attraverso lo schema del movimento corporeo, la volontà si trasforma nella possibilità concreta, prendendo forma e risultando in conseguenze significative non solo per un’analisi fenomenologica della volontà, ma anche per la costituzione unitaria degli oggetti nell’ambito della semplice percezione. Questo perché il corpo proprio ha libertà di movimento e “i movimenti di un individuo non sono solo dei movimenti meccanici ma piuttosto sono movimenti vivi in quanto liberi movimenti di un corpo proprio.” Lo studio del movimento, come un dato che esprime la reazione organizzata di un corpo situato nel mondo, per Le Boulch, acquista significato quando si considerano i rapporti del movimento con l’ambiente. In questo contesto, concepisce il movimento come un aspetto che riflette la condotta dell’individuo e il corpo come un’unità primordiale. Pertanto, il movimento deve essere collocato all’interno della situazione “vissuta dall’organismo”, in cui interagiscono molteplici fattori che influenzano l’esperienza corporea complessiva. Nel contesto di questa prospettiva, il movimento è un modo di espressione unico e potente, fondamentale per la condotta globale del soggetto, e che consente al soggetto di comunicare, interagire e svilupparsi in modo armonioso e significativo. Lo abbiamo collegato a Schütz, vediamo come.
Le Boulch concepisce il movimento non come una semplice forma meccanica, ma come una “espressione significativa” del comportamento umano, che l’osservatore può cogliere attraverso le azioni di un individuo, le sue parole e i movimenti del suo corpo, inclusi gli oggetti che crea, come opere artistiche o artigianali, così come la sua comunicazione verbale e scritta. La condotta umana rappresenta l’unità di significato di tutti questi elementi, poiché ciascun elemento ha senso solo quando è compreso nel contesto più ampio della condotta. Per comprendere meglio il concetto espresso da Le Boulch nel contesto fenomenologico, riteniamo pertinente stabilire un collegamento con la distinzione che Schütz fa tra l’agire espressivo e il movimento espressivo. Nelle sezioni dedicate al movimento e all’azione espressiva, Schütz afferma che l’individuo, attraverso il suo agire, intende operare nel mondo esterno per influenzarne un cambiamento, senza necessariamente voler esprimere i suoi vissuti di coscienza. Con l’azione espressiva, Schütz si riferisce a qualsiasi azione attraverso cui un individuo desidera proiettare verso l’esterno i contenuti della sua coscienza, che sia per fissarli per sé stesso (come, ad esempio, in un diario) sia per comunicarli ad altri. Il movimento espressivo, invece, non è compiuto con l’intento di comunicazione e non rientra propriamente nell’ambito dell’agire nel senso descritto dall’opera schütziana, ma è semplicemente un comportamento in cui manca il fine che caratterizza ogni azione propriamente intesa. In questo senso, sono movimenti espressivi i gesti che accompagnano un discorso. Il corpo dell’altro, continua Schütz, si presenta all’osservatore già come un campo espressivo di vissuti di coscienza estranei, per cui, per l’osservatore il movimento espressivo è anche un indice di vissuto estraneo. Ma non si può affermare che sia lo stesso per chi l’azione la compie, su cui vengono osservati tali movimenti espressivi. Al contrario, nelle azioni espressive vi è sempre un nesso di significato per il soggetto agente, per cui, per usare le parole di Schütz, le azioni espressive sono sempre notificanti, mentre nella vita quotidiana resta sempre il dubbio se i gesti dell’attore siano segni di vissuti da esprimere o semplici movimenti espressivi non notificanti.
Il valore espressivo del movimento che emerge fino a qui, la sua intenzionalità, il suo significato, riconducono gli assunti fenomenologici di Le Boulch, come la nozione di corpo vissuto, non solo ad Husserl ma, secondo noi, anche a Schütz. L’uomo ha il proprio corpo per agire ed esprimersi nelle situazioni in cui deve reagire e adattarsi. Quando il movimento viene compreso in relazione al soggetto e all’ambiente, diventa un modo di esistere della personalità in una situazione specifica, rivelando emozioni e sentimenti che il soggetto sperimenta in quel momento. Come Le Boulch dice, il movimento diventa così un segno, attraverso il quale la soggettività si esprime, quel simbolo che riveste un ruolo centrale nell’analisi della vita sociale e dell’esperienza umana fatta da Schütz. Il sociologo considera i simboli come strumenti fondamentali per la costruzione del significato e della comprensione reciproca tra gli individui. Essi acquisiscono significato attraverso un processo di attribuzione sociale condivisa e fungono da ponti tra l’esperienza intersoggettiva degli individui e il mondo che condividono. Il movimento, dunque, rappresenta la prima espressione spontanea di un soggetto nel mondo e si svolge sotto lo sguardo di un altro che lo accoglie e lo interpreta. Pertanto, il movimento esiste per un altro, diventa “espressione per altri”. Ed ecco che il movimento consente agli individui di comunicare, interpretare il mondo e attribuire significato alle proprie esperienze all’interno di un contesto sociale condiviso.
Nel caso studio che stiano analizzando, l’azione mossa da uno scopo o da un fine che si vuole raggiungere diviene un continuum progettuale, così come l’azione di Schütz. Per meglio dire, secondo il sociologo, l’agire è il progetto che si svolge progressivamente il cui scopo, ciò che è progettato, è l’azione finale. Nello sport, un atleta che si deve preparare per una performance ha come obiettivo quello di eseguire e perfezionare un gesto tecnico (l’azione) con precisione e consapevolezza, con l’obiettivo di raggiungere un risultato specifico. Il gesto tecnico in questione è lo scopo finale, ovvero l’azione schütziana, ma qual è nello sport il correlato del progetto? Lo andiamo a ricercare in una tecnica specifica. L’imagery è una tecnica utilizzata in psicologia dello sport che consiste nell’utilizzo di immagini mentali per migliorare le prestazioni cognitive o fisiche. In pratica, si tratta di visualizzare mentalmente un’azione o un risultato desiderato, in modo da preparare la mente e il corpo a raggiungerlo con maggiore efficacia. Per imagery si intendono “tutte quelle esperienze quasi-sensoriali e quasi-percettive di cui siamo coscienti” (A. Cei) e che, in assenza dello stimolo che le provoca, ne determinano comunque le stesse reazioni sensoriali e percettive. Da un lato, la similitudine tra il binomio progetto/azione in Schütz e il binomio allenamento ideo-motorio/gesto atletico, ci porta a considerare sempre più la fenomenologia come contesto di ricerca per il movimento e lo sport. Dall’altro, vediamo in queste tecniche di allenamento un io impegnato nella pratica della preparazione di una gara, un impegno che lui ha scelto di assumersi e che nessuno può prendere al suo posto. Compreso il rischio di perdere, di non riuscire in una buona performace. L’atleta è costantemente esposto all’errore, nonostante la preparazione, la progettualità e l’impegno. Il richiamo che stiamo facendo a Larmore è esplicito: impegno e responsabilità da un lato, rischio e imprevisto dall’altro, vediamo nell’atleta l’io pratico che costruisce la propria identità sulla base degli impegni presi e delle responsabilità assunte. (Esempi Baggio e Bolt).
Dunque, lo sport è un’esperienza del senso nei termini schütziani appena descritti ovvero l’atto con cui un individuo dà un significato a un comportamento, oppure ad un oggetto culturale, e la comprensione di ciò che intende comunicare col significato dato. Noi, a partire da quell’io pratico, che costruisce la propria identità attraverso le sue attività pratiche e le responsabilità che si assume in questa attività, proponiamo il caso-sport come un prodotto dell’attività pratica dell’io, in cui l’io si manifesta, cresce e costruisce la propria identità. Ergo, lo stiamo considerando come un’attività che ha significato in quanto risultato di vissuti di coscienza. Spieghiamo.
Se l’io è un dialogo e il movimento corporeo è un dialogo dell’io, lo sport, il cui presupposto è il movimento corporeo, diviene anch’esso un dialogo dell’io. Ci sembra plausibile, dunque, definire l’azione sportiva in termini schütziani, come decorso dell’agire: da un lato, è il decorso di una serie di vissuti che iniziano e finiscono, nei quali l’atleta vive il presente, da un qui-ed-ora ad un altro qui-ed-ora; dall’altro, è una serie di vissuti previsti e attesi nel futuro, un agire intenzionale che ancora non si è verificato, come l’azione di gioco. Quando l’azione si è conclusa, l’atleta può rivolgere il suo sguardo riflessivo sui vissuti passati e attribuirgli il suo significato. In effetti molto spesso l’atleta insieme all’allenatore, dopo una gara, ripercorre la propria performance, che sia un gioco di squadra o uno sport singolo, allo scopo di valutare la performance, vedere ad esempio dove si è commesso un errore e correggerlo per perfezionarsi per la gara successiva. Questo vale tanto per l’atleta quanto per l’avversario, tanto per l’io quanto per il tu, che ha la stessa capacità di volgere attenzione ai propri vissuti ed interpretandoli dà loro un “senso inteso”.
Schütz afferma che, l’esperienza diretta che il soggetto ha delle azioni dell’altro si manifesta attraverso la “percezione di un corpo estraneo in movimento”. Attraverso un processo di auto-interpretazione, l’ego riesce a comprendere questo movimento come un cambiamento che avviene nell’oggetto del mondo esterno, ovvero il corpo dell’altro. Questo corpo, essendo un corpo vissuto, rimanda al flusso continuo di coscienza del tu, che si sposta da un momento presente a un altro. Pertanto, il movimento corporeo dell’altro viene percepito non solo come fatto oggettivo del mondo esterno, ma anche come un segno, un “indice” di un vissuto dell’altro, nella sua durata interna e coordinato al suo movimento corporeo. E allora, perché non considerare l’azione sportiva in un quadro fenomenologico di senso e significato dell’azione stessa? Nel contesto sportivo, infatti, il movimento corporeo dell’altro, compagno di gioco o avversario che sia, è indice non solo di un vissuto estraneo, ma anche di un vissuto significativo. Questo perché l’agire sportivo ha in ogni suo momento costitutivo uno scopo ben preciso, che sia nell’azione presa singolarmente per impedire, ad esempio, un’azione/reazione specifica dell’avversario, o nella performance considerata nella sua totalità per raggiungere il risultato finale desiderato e per il quale l’atleta si è impegnato. Dunque, se è vero, e lo è, che l’anticipazione dell’avversario è fondamentale per strutturare una tattica di gioco e che richiede la capacità di comprendere le azioni e le intenzioni dell’altro, inquadrare l’azione in una cornice fenomenologico-sociale, quale Schütz ci ha fornito, ne consente un’applicazione pratica. Infatti, da un lato, comporta una maggiore preparazione tattica, per cui l’atleta può adottare le contromisure appropriate e ottenere un vantaggio competitivo sul campo. E dall’altro, un esercizio interpretativo reciproco tra gli atleti. (Esempio rugby e pallavolo).
Ad esempio, ma vale per tutti gli sport di squadra, il corpo a corpo nel rugby rappresenta una parte fondamentale del gioco, in cui due giocatori si impegnano in uno scontro fisico per ottenere il controllo della palla. Gli atleti devono analizzare e comprendere le caratteristiche e le strategie dell’altro per anticipare e adattare le proprie tattiche e adottare le contromisure adeguate. Anche negli sport da contatto, come le arti marziali, il tocco e il corpo a corpo rivestono un ruolo esperienziale importante. In questo contesto, infatti, la distinzione tra l’io e l’altro, tra l’atleta e l’avversario o il compagno, non è più ontologia, ma diventa pragmatica e permette la generazione di scene sportive, dove l’io e l’altro si confondono. Dunque, la soggettività individuale si scioglie l’una nell’altra. Vale a dire che il movimento, in quanto espressione del corpo, è la chiave con cui l’io pratico, politico ed espressivo, che abbiamo delineato, conosce se stesso.
Lo spazio, inteso come l’ambiente in cui si svolge l’attività sportiva, offre una cornice in cui le azioni si sviluppano e le strategie si concretizzano e fornisce il contesto in cui avvengono le interazioni tra i partecipanti. Lo spazio dello sport, il campo sportivo, è un contesto in cui l’atleta si confronta con se stesso, la sua concentrazione e le proprie performance, ma allo stesso tempo è anche un luogo in cui si instaura il dialogo, la collaborazione e la sfida reciproca con gli altri. Quindi è uno spazio che abbraccia sia l’individualità che la collettività. Secondo il mondo sociale, l’io vive sempre il tu, siamo già esseri sociali. Ma, la condivisione di un spazio, il campo, in cui si svolge il dialogo attraverso il movimento corporeo, rappresenta l’apertura dell’io al tu, che pone soggetti nella “relazione socio-ambientale”. In questa relazione, gli atti dell’io e dell’altro si rivolgono reciprocamente, in quanto, non solo soggetti coesistenti, ma perché l’atteggiamento di apertura è reciproco. Infatti, entrambi, ego e alter ego, atleta/avversario, hanno l’uno lo sguardo sull’altro, a fini strategici, in quel significato di attenzione reciproca che abbiamo delineato in questo percorso. Se lo sport è un’azione soggettiva dotata di senso, allora, attraverso la relazione sportiva, l’io si fa conoscere e i confini dell’io sono meno marcati di quanto diremmo. Gli sport di squadra ne sono un esempio. L’incontro/scontro con l’avversario nello sport si configura come un’occasione di apertura dell’ego all’alter ego e viceversa, per cui l’uno si schiude all’altro, permettendo di esplorare e comprendere la propria presenza attraverso il dialogo corporeo. In questa “metamorfosi” l’io risulta cambiato in quanto partecipe, con la propria storia individuale, di scene dinamiche e relazionali, che sono dichiarazioni intersoggettive, in cui il dialogo con se stesso e con l’altro è un dialogo mediato, che si costruisce nello sport e con lo sport. Dalla consapevolezza dell’esistenza dell’altro di fronte a sé consegue la consapevolezza dei propri limiti, non solo in termini di capacità, ma anche in termini di rispetto dello spazio altrui e la concezione dell’avversario, come un nemico da sconfiggere, viene spesso superata dal rispetto reciproco e dalla consapevolezza che entrambi i team fanno parte dello stesso gioco.
Nelle conclusioni abbiamo ricapitolato quanto esposto e abbiamo individuato una possibile linea di ricerca, cioè lo studio dell’effetto dell’apprendimento durante l’infanzia sulle dinamiche interpersonali e sullo sviluppo sportivo a lungo termine. Questo studio potrebbe essere condotto sulla base di una prospettiva fenomenologica, appunto, che si concentra sull’esperienza soggettiva e sulla comprensione del significato che le persone attribuiscono alle loro esperienze vissute. La comprensione fenomenologica dell’azione e delle esperienze sportive durante l’infanzia potrebbe avere un risvolto educativo importante. Il bambino potrebbe imparare fin da subito che la propria personalità non è scontata, che il proprio io lo costruisce lui stesso, in prima persona, attraverso i gesti che compie, le responsabilità che assume nella pratica quotidiana del gioco con gli altri, ad esempio. E che adulto sarebbe un uomo che fin da piccolo ha imparato “a costruirsi da sé” nel significato pratico che è emerso dalla nostra tesi? Un adulto che riconosce che l’essere un individuo è un lavoro, una responsabilità, come afferma Larmore, e che riconosce una pluralità di valori in cui l’autenticità è solo uno tra questi e non il valore supremo, che uomo sarebbe nel mondo?
L’approccio interdisciplinare che stiamo proponendo e che combina la fenomenologia, la teoria del corpo e lo studio del movimento, l’io pratico, offre una prospettiva ricca e complessa sulla natura dell’io, sulla sua relazione con l’altro e sul significato del movimento come dialogo dell’io. Un’opportunità per esplorare l’aspetto espressivo e simbolico del movimento corporeo.
In conclusione, l’io che emerge da questa ricerca non è un io statico, che riflette su se stesso. Ma abbiamo voluto rivalutare in tutto questo percorso un io dinamico, che compie azioni pratiche, come lo sport, nelle quali emerge un significato ulteriore. Ispirati dalla definizione di Schutz di discorso come la sovrapposizione dei flussi temporali di coscienza nel presente, in quanto condivisione dell’espressione vocale, proponiamo una definizione di movimento come espressione di flussi di coscienze che si sovrappongono nel tempo e nello spazio. Sovrapposizione spazio-temporale in cui i flussi di coscienza, che si cristallizzano in io diversi che si riconoscono l’uno nell’altro e con se stessi. Qui, ogni ego è altro da sé perché non si possiede mai in modo immediato, ma dialoga con se stesso attraverso il dialogo corporeo con l’altro.
Il movimento corporeo è un dialogo dell’io.
Anna Lorenzini