9 ADDIO
Se non fosse stato per quell’evento, forse avrei anche potuto rivelarti cosa provavo per te.
Però io non ci riesco. Io non riesco più a parlare.
Lui lì sotto e io che non riuscivo neanche più a scorgerlo.
Solo la sua voce flebile che mi diceva di non preoccuparmi, che non era colpa mia, che eravamo stati stupidi.
“Dai, vai a chiamare mia mamma! Che tanto al massimo mi metterà in punizione. Lei troverà sicuramente un modo per tirarmi fuori di qui. Ma sbrigati che non mi sento bene, ho mal di testa”.
Per questo non parlo. Non ero riuscito a chiamarla e nessuno ha mai saputo dove si trovava. E nessuno ha mai saputo che io sapevo.
E ogni volta piango. Ho gli incubi. Mi sento in colpa, così in colpa…
Avevo paura della reazione della madre, di rivelare al mondo che, per una disattenzione e per aver esagerato, avevo fatto tanto male al mio amico.
E da allora non ho più parlato. Parlare significa non avere giustificazioni, significa che dovrei raccontare tutto. E allora nessuno più, avrebbe fiducia in me.
Ma tu, che ora sei qui, fredda e distesa, hai sempre avuto fiducia in me. Anche se non ho mai potuto dirti che ti ho amata follemente.
Perché non mi hai aspettato?
Sarebbe stato doloroso ma avrei potuto stringerti la mano e accompagnarti nel tuo viaggio verso il sonno eterno.
Invece mi ritrovo qui, in ginocchio, davanti al tuo corpo rigido, a piangere, a pensare che ti amo così tanto, che te lo avrei potuto dire almeno una volta, al fatto che mi manca il mio amico, che sono un codardo, che ho perso le persone più care scappando nel momento del bisogno.
Un buio dentro ho, se chiudo gli occhi. Le orecchie mi fischiano e non trovo conforto nel sapere che potrei dimenticare, un giorno. Un pugno nello stomaco farebbe meno male e la gola, che rompe il fiato diretto alle corde vocali, accumula tensione e mi batte, come se avessi il cuore lì, come se mi sentissi strozzare da dentro.
Le lacrime scorrono copiose lungo le guance e cadono sulla manica del tuo vestito elegante, forse il tuo unico vestito da cerimonia, mai indossato per giunta.
Se ripenso al passato, ai bei momenti passati insieme, vorrei fermare il tempo al momento del nostro primo appuntamento, il giorno dopo il nostro primo bacio.
Non conoscevi neanche il mio nome ma mi avevi baciato, tra le botti di aceto, le corde e i chiodi. Ed era stato così coinvolgente che mi era sembrato fosse durato ore, anziché qualche istante. Poi tu, con quegli occhi così grandi color caramello, abbozzando un sorriso, mi chiedesti di rivederci il giorno dopo, in un magazzino non utilizzato in fondo al porto.
Ricordo ancora la discesa per le scale, poco prima dell’incontro. Avevo il cuore a mille, le mani sudate, il fiatone. Quando entrai nel magazzino ancora non eri lì e per un attimo mi venne il panico; avevo paura non ti presentassi o che qualcuno ti avesse proibito di uscire.
Invece dopo pochi minuti entrasti dalla porticina. Bella come il sole, fresca come la brezza della sera e sorridente, con quell’arco di denti bianchi spalancato, guarnito solo di quelle rosee e salate labbra, alle quali non vedevo l’ora di avvicinarmi.
Ricordo l’odore del tuo collo, il tuo mento, il sapore delle tue spalle, la forma delle scapole muoversi e uscire fuori a ogni respiro, a ogni ansimo, la foga dei tuoi baci e tu che mi dicevi di volermi vedere anche domani. E poi ancora domani. E poi domani ancora…
Ricordo il tuo correre a piedi nudi, canticchiando. La tua voce vispa e allegra, la tua treccia ballare lungo la schiena, le tue gambe fini e le caviglie esili. Era una gioia osservarti giocare. Sì, tutto per te era giocare, anche lavorare.
Ti ho abbandonata proprio quando avevi più bisogno di me, da quella maledetta febbre dalla quale non sei più guarita. Non avrei dovuto accettare il richiamo dei miei, avrei dovuto disubbidire, avrei dovuto restare qui con te. Sbagliando, ho pensato che avrei fatto in tempo a ritrovarti, magari guarita, magari con la stessa voglia di rivedermi giorno dopo giorno, solare e sorridente come al solito.
E ora l’odore di aceto è talmente forte da darmi la nausea. Ti amo Nada ed è l’ultima cosa alla quale voglio pensare prima di volare.
di Fabio Valerio