Entrai in crisi dopo soli tre giorni di disoccupazione. Mi chiamavano i miei, Mirko, gli ex colleghi, qualche altro amico non proprio amico…
Nel frattempo, poi, Raissa doveva tornare a Prato. Era venuta per vacanza e alla fine si era fermata molti più giorni rispetto il preventivato, così aveva deciso di rientrare, almeno per parlare a quattrocchi con i genitori e gli amici, del fatto che si sarebbe trasferita qui.
Non ne avevamo neanche parlato a fondo, ma ormai davo per scontato di essere una coppia fissa e che potevo tranquillamente chiamarla con il termine “la mia compagna”. Incredibile. Eppure ripensarlo mi fa un certo effetto, perché lì per lì non mi sembrava nulla di particolarmente speciale. Non riuscivo a sentirmi esaltato per questo. Anzi, sembrava quasi vivessi in una bolla, in un limbo, quasi assente e lontano dal poter percepire appieno le emozioni e le sensazioni.
La accompagnai alla stazione dei treni e aspettai sulla banchina finché il treno non lasciò la stazione, poi mi incamminai a testa bassa verso l’auto.
I pensieri non mi davano tregua.
Avevo l’ansia di non trovare un altro lavoro, o di trovarlo ma che odiavo, o di trovarlo che mi piacesse ma mi faceva guadagnare poco o… Avevo ansia, in generale.
Avevo paura che Raissa non tornasse, che decidesse di rimanere a Prato, intuendo da subito che qualcosa in me non andava, realmente. Oppure che i genitori la convincessero a restare lì, o che incontrasse un belloccio sul treno e la portasse via…
E mi mancava la mia droga. Cazzo se mi mancava.
Camminando presi il telefono, aprii i social, giusto così per curiosità, e trovai il primo messaggio che doveva avermi mandato Raissa, tempo prima di risentirci. Diceva:
“Ciao Giò, come stai? Verrò a Roma nei prossimi giorni, ti va di vederci per un caffè?”
“Altro che caffè”, pensai e abbozzai un sorriso che venne, però, subito stroncato da un like, del quale non mi ero accorto, al mio ultimo post di quel periodo: Elisa.
Perché mi aveva messo un like?
C’eravamo già lasciati, le avevo consegnato gli scatoloni, si era trasferita dal bellimbusto (credo) definitivamente… Perché mi aveva messo quel like? Il post era un mio selfie dove si vedeva solo un occhio, la fronte e i capelli, ma con lo sfondo un salice piangente. Un tentativo di foto fica, che fica non lo era per niente.
“Cazzo! Che significa quel like?”
Salii in macchina e poggiai il telefono sul sedile del passeggero, che allisciai con la mano pensando che Raissa era stata seduta lì fino a poco prima. Provai a fare dei respiri profondi ma le lacrime volevano sgorgare violentemente e mi si gonfiarono gli occhi. Sono un piagnone. Resistetti e digrignando i denti guardai fisso davanti a me e partii, direzione casa. Il problema fu che dopo qualche curva dovetti accostare velocemente, non mi sentivo bene per niente. Scesi dalla macchina e camminai un po’ avanti e indietro, per smaltire quello stato d’ansia, ma cominciavo a sudare e una nausea inarrestabile si stava facendo largo attraverso l’esofago; vomitai tutto quello che avevo ingerito quel giorno. Vomitai più volte finché, distrutto, non mi accasciai appoggiandomi all’auto. Respirai e guardai il cielo. Era triste. Non un bel cielo terso. Era opaco, con lo smog che filtrava la naturale lucentezza di quell’azzurro limpido. Provai pietà per me. Ma ormai dovevo farlo, perché sapevo che non sarei arrivato a sera, così.
Presi il telefono e le scrissi sulla chat di instagram:
“Ti va di vederci? Solo una volta. Solo pochi minuti”.
Salii in macchina e arrivai a casa, dove per prima cosa mi gettai in doccia. La puzza di vomito mi era entrata nelle narici e avevo assolutamente bisogno di depurarmi dai pensieri dannosi. Mi sentivo anche in colpa nell’aver scritto quel messaggio, tanto che decisi di cancellarlo, una volta uscito dalla doccia. Rimasi sotto il getto dell’acqua per un lungo periodo, cercando di far passare quanto più liquido depurante su tutta la pelle, nella vana ricerca di una pulizia nell’animo.
Dopo quasi un’ora uscii e, nudo, mi diressi verso il soggiorno, mentre mi asciugavo i capelli.
“Non mi aspettavo una così bella accoglienza!” sentii esclamare dalla cucina. “Lo vuoi il caffè?”
Spaventato, quasi mi prese un colpo al cuore così, di getto, portai l’asciugamano che stavo usando per i capelli all’altezza delle parti intime ma in realtà, anche se era una questione di attimi, avevo riconosciuto la sua voce.
“Pensa, mi hai scritto che ero qui vicino. E poi ho chiesto le chiavi alla vicina”, sorrise. “Fortunatamente ho sempre avuto un bel rapporto con lei”.
Dal giorno del mezzo svenimento decisi di lasciarle una chiave di riserva, in caso di qualsiasi evenienza.
Ero senza parole. Aveva il suo sorriso, quello vero, quel ghigno che tanto avevo imparato ad apprezzare. E l’aria sprezzante, come di chi se la comanda ovunque, come se tutti gli altri fossero un po’ meno. La guardavo attonito, in silenzio, muovendomi quel minimo indispensabile per non far intravedere i gioielli.
“E che sarà mai, ricordo bene come è fatto. Mettiti comodo. Anzi, se vuoi farmi vedere qualcosa…”, disse ridacchiando.
Io sbarrai gli occhi. Mi sentivo debole, un po’ perché ero stato male, un po’ forse per la doccia troppo prolungata, fatto sta che non mi sentivo neanche di andare di là a cambiarmi. Mi sedetti sul divano, in maniera composta, attento a coprire quello che potevo coprire e le chiesi: “Perché sei venuta? Lo sai che sto con Raissa? Che intenzioni hai?”.
Si avvicinò alzando il sopracciglio – come mi piaceva quando lo faceva – bisbigliando qualcosa della serie “Me lo hai chiesto tu” o simile, ma non lo ricordo perché ero troppo preso a osservare la sua camminata predatoria verso la preda inferma e si lanciò in un bacio appassionato, afferrandomi il viso e lanciando via di prepotenza quell’asciugamano che tenevo tra le gambe.
La prima cosa che feci fu di scostarmi un po’, ma non per allontanarmi, ma solo per osservare le sue mani e poterle leccare tutte. Il palmo, il dorso, le dita… Era una sensazione incredibile. Come può sentirsi un fumatore incallito al quale viene proibito di fumare, per poi dopo due o tre giorni ricevere la sua tanto agognata Marlboro? Beh, io non fumavo da almeno dieci giorni e mi avevano dato tutto un pacchetto di sigarette.
La passione prese il sopravvento ma, poco prima di rendere ufficiale il rapporto, si alzò, prese il telefono e disse: “Con questa voglio che mi ricordi a vita”, guardandomi nelle pupille, mordendosi il labbro, e fece partire il brano “Technologic”, con il quale facemmo sesso a ritmo, finché non venimmo in contemporanea. I baci si sprecarono. Cazzo quanto mi mancava. Se mi avesse chiesto nuovamente di sposarla, avrei accettato ancora.
Ormai ero sull’orlo del precipizio e avevo deciso di buttarmi di capoccia. “Sei illegale”, le dissi e continuammo a baciarci tutta la serata.
di Fabio Valerio