C’era una volta, nella periferia della grande città eterna, una famiglia che abitava nella “casetta”. Il grande cancello apriva un vialetto sterrato con terreni e altri cancelli, uno per ogni pezzo di terra e una “casetta”. Così era chiamata la loro casa, perché in effetti era una semplice casetta costruita su un terreno, ad un primo sguardo esterno, diroccata, con quattro mura bianche, finestre e una porta d’entrata. Il tetto era dritto e aveva una piccola gronda, e sotto la finestra della camera da letto c’era un grande buco nel muro, nel quale si poteva addirittura entrare, ma non lo faceva mai nessuno, ovviamente. Intorno c’era un terreno abbastanza grande, senza piante o fiori, solo quelli che crescevano naturalmente e gli alberi. Era solo terra.
Di quella che possiamo definire “casa” c’erano solo le mura. Non c’erano i riscaldamenti, usavano una stufa, non c’era la cucina, usavano un fornello con la bombola del gas. L’acqua proveniva direttamente dal pozzo, non era potabile e a volte nemmeno c’era. Era difficile bere e lavarsi. La corrente c’era. Usciti dal vialetto e all’angolo della strada principale c’era una fontanella, il “nasone” lo chiamano a Roma, ed era lì che si riempivano taniche di acqua potabile per la casetta e con la carriola si portavano su. Lo faceva spesso una bambina, per gioco, da sola e, nel viale sterrato di risalita verso casa, immaginando di percorrere un mercato, ogni tre piante si fermava per comprare acqua e pane parlando con i fiori come fossero persone.
Erano gli anni ’80, era un quartiere di periferia, costruito con materiali poveri prima del “ventennio”, che poi divenne popoloso e poco raccomandabile nel complesso, e in quella via, limbo tra due zone all’epoca malfamate, i palazzi lasciavano il posto alle baracche, o quasi, e a piccole case basse con un po’ di atrio o terreno tutto loro. Sembrava surreale che nel caos caratteristico della periferia, tra automobili, schiamazzi sguaiati, tram, il silenzio avesse un posto tutto suo, un luogo povero dove ogni bisbiglio diventava voce e dove quella voce di bambina riempiva quel silenzio di fantasia.
Erano gli anni ’80, con la musica più bella, quella che ancora oggi si balla, con la moda delle felpe over size e dei jeans. Gli anni del “muro che cade” che hanno portato fiducia nel futuro e spensieratezza. Ma anche gli anni della droga, dell’HIV e della delinquenza, gli anni della povertà e di chi ancora non aveva l’acqua in casa e beveva in fontanella.
Anna Lorenzini.
N.B. Questo racconto è frutto di invenzione artistica e vuole essere uno spaccato della società del tempo; ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale.