Tanto che finii a parlare al parco con una ninfa, a margine dello stagno, dove le foglie galleggiavano larghe e lei ci si appoggiava in qualche modo. Storta, forse un po’ in stizza, ma stava su. Mi strisciavano addosso i bisbigli della gente che passava e commentava, ma che fa, non saprei, quello è matto, dai tu dici, eh sicuro, occhiatine oblique, dando di gomito sotto i poncho impermeabili, lungo il sentiero principale. Lei non mi guardava, o forse sì e a me pareva di no, attraverso quelle maschere che tesseva e posava, provava e smetteva. La osservavo impalato chiamandola attraverso una pioggia fine, cullando il mio bouquet di dalie variopinte che ninfee non erano, per carità, chi ci pensava, manco a dirlo, però facevano la loro figura. Allora rispose, inaspettatamente, mentre la pioggia aumentava. Si chiamava Nesea. Lo svelò a pelo d’acqua, nell’intrecciare una sua ciocca molle alla freschezza di petali novelli. Strinse la matassa tra le dita, come la coda di un ragionamento. Poi indossò la maschera che ne fece, uguale alle altre seppure crepata, una fessura sottile, degnandomi di uno sguardo. Disse qualcosa che non riuscii a capire, una parola già lontana, coperta dallo scroscio ormai abbondante sullo stagno.
Testo di @apolae_fotoracconti
Disegno di @dade.mind