Ti svegli un’ennesima mattina in quel luogo così strano e nulla è cambiato. Tutto come al solito, tutto liscio, tutto così noioso. Ti alzi lentamente, prepari un infuso di erbe che hai imparato a riconoscere, metti in bocca dei piccoli frutti, senza semi, colti il giorno prima e ti vesti. Il primo sguardo è sempre diritto davanti a te, come a salutare quell’amico fidato: il muro. Nessuno a destra, nessuno a sinistra.
Nessun rumore, né vento, nessuna precipitazione, né segno di vita altrui. Solo tu, la natura, il silenzio e il muro. Cosa farai oggi? Ti cosa ti occuperai? Che cosa ti preoccuperà?
Cibo, acqua, dare una lavata ai due stracci che hai indosso, una strofinata ai capelli e tornerai a casa, annoiato, appena prima che faccia buio. Per poi aspettare, come ogni altra notte, il giorno successivo. E così sempre, senza distinzione tra un giorno e l’altro. Senza aspettative e novità.
Eppure, camminando lungo il sentiero per raggiungere il torrente nel quale ti laverai a breve, senti che qualcosa di strano oggi c’è. Non c’è niente di significativo che te lo faccia pensare, ma si tratta più di una sensazione, uno stano movimento all’interno di te, di insoddisfazione, oppure di agitazione, senza capirlo a fondo.
Raggiunto il fiumiciattolo, ti inchini per strofinare le vesti che avevi indosso, rimanendo quindi nudo e questo, legato a quella strana sensazione provata, ti crea disagio. Continui a guardarti alle spalle, a destra e sinistra ma, come sempre, non c’è nessuno.
Quell’agitazione interna si fa sempre più importante, più presente, tanto dal sentire degli occhi puntati addosso. A volte provi anche a voltarti di scatto, ma nulla. Fai dei respiri profondi per calmarti, dicendoti che niente di strano sta per accadere, che tutto è come al solito, che altre persone oltre te, non ci sono.
Messi a stendere i vestiti sul ramo di un albero, ti immergi nel torrente e inizi a strofinarti con l’acqua limpida che lo caratterizza, acqua che usi anche per bere e cucinare. Ne senti il sapore, la riconosci, l’odore dei prati intorno, la vista delle chiome degli alberi e, in lontananza, la presenza del muro, che ormai ti rassicura quasi come fossi dentro casa.
Lasci lo sguardo vagare tra le sinuose colline e le distese che paiono infinite e ti accorgi di aver dimenticato per un po’ quella sensazione, così da imparare a sentirla meno, a tenerla controllata nello stomaco.
Una volta asciutti, tu e i vestiti, ti incammini nuovamente verso casa, inchinandoti di tanto in tanto per raccogliere erbe, piante e funghi. Nei pressi dell’abitazione controlli le trappole, se fossero riuscite almeno stavolta a garantirti un po’ di proteine; niente come al solito.
Così, rassicurato e ormai tranquillo, rientri in casa, lasciando le scarpe fuori per non sporcare di fango il pavimento. Ma appena entrato ti accorgi che c’è qualcosa di diverso. Qualcuno ha usato un bicchiere, che tu non avevi di certo lasciato sul tavolo; così istintivamente ti volti verso il letto e noti la presenza di qualcuno, disteso all’interno. Agitato e spaventato, prendi la prima cosa contundente che ti capita a tiro e ti avvicini urlando al letto, brandendo in aria la brocca di metallo: “Chi sei? Che ci fai qui? Vai via, questa è casa mia!”. Nessuna risposta.
Ti avvicini di più, fino a capire di chi possa trattarsi e, scoprendo il lenzuolo con il quale è coperto il corpo, ti accorgi di avere, stesa nel letto come non avesse vita, una donna.
Minuta, bionda, con i capelli a caschetto, ben vestita, piccolina e sdraiata supina; vedi adagiata una ragazza dal volto familiare, ma che non riconosci, e che sembra non dare cenni di vita.
Ti avvicini, per capire se possa essere morta o no, tanto da toccarla: non è fredda. Avvicini anche l’orecchio alla bocca, respira. Provi a svegliarla, ma niente. Fai un sospiro e ti arrendi all’evidenza, stanotte dormirai sulla sedia, se riuscirai a dormire.
La mattina successiva la ragazza è ancora lì, dormiente, che non dà cenni di volersi svegliare e tu non sai cosa fare. Provi a gettarle un po’ d’acqua sul viso, le pizzichi una gamba, fai rumore, ma niente. Allora provi a valutare cosa possa aver bevuto, controllando il bicchiere sul tavolo. C’è un po’ di liquido all’interno, giusto poche gocce, che provi ad assaggiare con un dito, ma il sapore amarissimo sembra quasi volerti bucare la lingua, nel punto entrato in contatto, così prendi subito dell’acqua e ti sciacqui la bocca e le mani. “Ma cosa avrà ingerito?”, ti domandi; così cerchi di capire cosa potesse essere per trovare una soluzione.
Esci di casa, ti rechi alla svelta al ruscello, riempi la tanica e la brocca d’acqua, e torni il più in fretta possibile per provare a far bere la ragazza, per cercare di farle andar via dal corpo quello che hai valutato potesse essere del veleno.
Provi ad alzarle un po’ il capo, aggiungendo un sostegno dietro la nuca, e le versi dell’acqua tenendo con una mano la mascella ben aperta, evitando di bagnarla. Beve e deglutisce. Lentamente ma ci riesce. Forse è istinto, forse non è in coma o uno stato simile. Non lo sai, però sai che beve e questo è già qualcosa. Riprovi a svegliarla, a pizzicarla, a scuoterla, ma non dimostra alcun cenno di volontà. La situazione comincia a essere proprio strana, così, per prendere un po’ d’aria e cercare di ragionare al meglio, esci dalla porta e dirigi lo sguardo verso l’amico muro. Pensi che forse dovrebbe mangiare, magari prima o poi farà anche pipì, dovrai lavarla anche, se non si sveglia. E se le toccassi il seno? Si sveglierebbe? Magari sentendosi in difficoltà potrebbe istintivamente attivarsi. E se non funzionasse con il seno potresti provare con le parti intime. Pensi al solletico, allo scottarla leggermente con qualcosa di molto caldo, al fatto che non può rimanere troppo tempo nella stessa posizione.
Così, dal giorno dopo, decidi di iniziare a fare dei tentativi per destarla o, se non dovesse rispondere, almeno per mantenerla in vita. Questo, ovviamente, significa procurare acqua doppia, organizzarsi per farle espletare i bisogni, trasportarla all’esterno, ogni tanto. Ma anche trovare un modo per farla mangiare, per lavarla e soprattutto trovare un modo per dormire comodo, e non su una sedia come la notte precedente.
Da quel giorno in poi le provi tutte: la marchi con un ferro ustionante, la tocchi, ci fai l’amore, provi a soffocarla, le canti delle canzoni, fai rumore, la fai infreddolire all’esterno, la porti in giro, le parli, la lavi, le fai mangiare cose che trovi e che possano essere ingerite liquide, la pettini, la vesti, la curi. In pratica diventa la tua bambola. Le puoi fare ciò che vuoi e lei, senza battere ciglio, continua a esserci. Respira, beve, si arrossa al sole, profuma se la lavi, ha orgasmi quando la tocchi, suda se le fai sentire caldo, ha i brividi se le fai sentire freddo e sembra ascoltare. Non sai perché, ma ti sembra che lei ascolti. E da quando vivi di questa sensazione, eviti di farle cose che non ti piacerebbe ricevere. Quindi eviti pizzichi, percosse, rumori molesti o qualsiasi rimedio “estremo” per svegliarla. Inizia addirittura a volerle bene. Sei contento sia lì, almeno non sei più solo. Sì, in realtà, sei solo, ma hai da occuparti per un qualcosa che dipende da te, quindi ti piace, ti fa sentire vivo. Ti sei affezionato.
Il giaciglio dove ormai dormi, è un cumulo di erbe secche che hai adagiato proprio accanto al letto, così da poter sentire, nel caso servisse, qualsiasi cenno di vita della ragazza, della quale non sai neanche il nome, ma che per te conta molto.
La sera ti corichi accanto a lei, le sfiori la mano, non prima di averle dato un bacio sulla fronte, e ti addormenti con il sorriso sulla bocca, pensando a cosa avrai da fare il giorno dopo, per tenerla in vita.
Finché, una mattina tra le tante, svegliandoti all’alba come al solito, scopri che lei non c’è.
La ragazza per la quale hai avuto cura negli ultimi quattro anni, non c’è più. Se n’è andata, così, senza dire niente, senza avvertire, senza salutare, senza ringraziare.
Non credi ai tuoi occhi. Ti alzi di scatto, cerchi in casa, la chiami, strilli, esci, ti guardi intorno fino a dove l’occhio può arrivare, urli avvicinandoti le mani alla bocca, cercando di far propagare meglio la voce, ma nulla. Nessun segno, nessuno che ti dia una risposta, il silenzio assoluto. Ti volti verso il muro, lo guardi e, convinto sia sua la colpa, lo maledici urlandogli a squarciagola contro.
Avvilito, deluso, abbandonato, rientri in casa. Pensi a come possa essere riuscita a uscire senza svegliarti, cosa possa aver pensato vedendoti lì a terra, accanto a lei, cosa possa essere successo e come sia riuscita a muoversi, senza aver fatto alcun movimento per anni. Non ti dai spiegazione. Ti avvicini al letto, lo guardi, le lacrime scendono lungo le guance e, con gli occhi gonfi, ti getti lì dove il suo corpo teneva caldo il lenzuolo. Con il viso affondato nel cuscino di paglia, senti il suo odore, ancora vivo, ancora presente e ti lasci andare a un pianto disperato, inconsolabile. Sei solo. Di nuovo. Per sempre. Mentre pensi a questo, senti sotto il cuscino la presenza di un pezzo di carta, così lo tiri fuori velocemente e, asciugandoti gli occhi, provi a mettere a fuoco la scritta:
“Grazie. Avevo bisogno ti prendessi cura di me, ora sono pronta per andare”.
Solo questa frase, niente più.
Il respiro si interrompe nel petto, tra singhiozzi e domande che ti annebbiano il cervello e, senza alcun senso, senza lucidità esci di nuovo dalla porta e cammini, tenendo stretto il foglietto. Cammini per giorni, per notti, senza fermarti, senza mai smettere di lacrimare.
Cammini e giri intorno, proprio come avevi fatto il tuo primo giorno lì, in quel luogo così strano, così isolato.
Cammini e il muro è sempre lì. Così come la casetta, il ruscello, le tue cose, gli alberi…
E poi, dopo ore e ore di cammino ti volti verso l’amico muro. Con il foglio ancora tra le mani, lo osservi, in tutta la sua imponenza, e lasci all’interno di una fessura il ricordo scritto dalla ragazza.
Lo osservi finché non decidi di allontanarti, capendo finalmente che, né il muro e né la donna, sono mai stati il problema, o la soluzione.
Tutto è, ed era, già dentro di te.
di Fabio Valerio