Dal caos alla pace, dalla matassa individuale ai fili invisibili che ci legano agli altri, dal movimento al riposo, dallo stress alla consapevolezza …
La Pedagogia passa attraverso di essi, quasi camminando come un funambulo su un filo sospeso in alto, con la stessa concentrazione ed senso di equilibrio che lo contraddistingue: lo sguardo fisso verso l’obiettivo, un portamento fiero e tranquillo, che nasconde tutte le sconfitte e le cadute durante le prove; un sorriso accennato di divertimento durante la sua performance, che dona piacere e suspance al pubblico. Nessuno sa quanti tentativi lo hanno portato a non arrendersi, nonostante la mente abbia sofferto mentre si ripeteva: “Non mollare! Riprovaci! Ritenta, non è la fine!” ripetuta fino alla nausea, spesso come una cantilena, il funambulo trova la forza e il coraggio di dare un peso a tutte le sue parti del corpo. L’equilibrio non gli fa più paura, anzi è ciò che caratterizza il suo essere e la sua identità. Non sarebbe vivo, non potrebbe sapere cosa fare della sua vita.
Eppure la frase, quasi un mantra” Non mollare! Riprovaci! Ritenta, non è la fine!“, sostiene quella fatica mentale di fronte ai momenti di crisi. Le stesse parole, così pesanti in età adulta, rispetto alla leggerezza del vento sentito sulla pelle del funambulo, non rispecchiano ciò che da piccoli è parte della quotidianità e della scoperta gioiosa: senza pressioni esterne, la ricerca sensoriale è meravigliosa intorno a sé, a ciò che si vede, si ascolta, si sente, si percepisce…tutti i sensi sono quasi un tutt’uno all’unisono fino a che ne abbiamo memoria.
Il tentativo fallito nasce come un gioco, una cantilena melodiosa senza giudizio, sospeso in aria come la corda del funambulo diventa un motivo in più per imparare a camminare, a mangiare con la forchetta, a muoversi, salire le scale di uno scivolo e gioire della discesa guardando gli altri bambini farlo.
“Non mollare! Riprovaci! Ritenta, non è la fine!” : vai avanti, cerca una via d’uscita…e in un certo senso queste parole diventano una preghiera…una speranza, dalla stessa polisemia della parola requiem: preghiera e riposo.
Quando la Pedagogia genera “riposo” significa che sostiene, accompagna e riporta in sé le risorse interiori necessarie a collegare il mondo esterno del soggetto da quello interno: grazie alle Neuroscienze questa requiem si mescola alla coscienza più intima di noi e si fa relazione sinaptica. Si vive non in preda alle paure, ma nella pace dei propri sensi.
Si può sentire un colore? Si può vedere un pianto e ascoltarlo con il cuore? Si può gustare un istante come una ciliegia in piena estate?
Si, la Pedagogia per chi la ama dall’interno la saprebbe riconoscere tra tutte le scienze umane…è qualcosa di indefinito che cerca la sua forma ancora nella società moderna e, allo stesso tempo, parte della sua nascita fin dai tempi antichi alla ricerca della Verità.
Ma se arrivasse la fine dei tempi, e sopraggiungesse la morte, la bandiera della defunta umanità, con l’ultimo significato di requiem, allora il suo vessillo, come in un corteo, la porterebbe la Pedagogia, insieme alle sue scienze sorelle, la Filosofia, la Psicologia, l’Educazione, l’ Antropologia, la Storia, etc …
Nella realtà del mondo educativo due momenti significativi ritornano nell’elogio funebre: nel primo ci si ritrova immobili a leggere su un muro di una scuola media superiore “Requiem in pace”. Una scritta lapidare che fa rabbrividire solo chi crede ancora alla Pedagogia e, ad ogni sveglia mattutina si dice: “Non è la fine! Non mollare! Ritenta!“, mentre altri passano indifferenti davanti ad essa con la testa bassa.
…nel secondo invece si osserva con un sorriso consapevole un bambino che scrive e gioca in prima elementare con parole strane imparate nell’ora di storia, come “australopiteco” o ” neolitico”: mentre la Preistoria è fonte ancora di stupore, tutto allora ricomincia…di nuovo…
La Pedagogia, alla base dell’apprendimento si trasforma, come la Natura, dove nulla si crea e nulla si distrugge.