Quando guardate un film che vi emoziona, leggete un libro che vi emoziona o quando vi trovate di fronte ad una scena di vita reale, che riguarda altre persone, ma che vi commuove, siete in uno stato che io definisco, e non sono stata la prima a definirlo tale, di com- passione (cum-patior, lt.). In quel momento avete stabilito un legame emotivo con l’altro che vi consente di percepire e di provare la sofferenza che sta provando, che sia una scena di un film, una pagina ben scritta di un libro o meglio ancora uno spaccato di vita reale. Per meglio dire, è l’emozione che ha stabilito questo legame empatico, e scelgo questa parola di proposito, molto importante e piena di sfumature, perché all’interno vi è il termine pathos, carico di significati; infatti è formato da en-pathos, che normalmente si traduce “nella sofferenza”, ma pathos (greco antico = πάθος), come dicevo, va considerato nelle sue molteplici sfumature: significa “ciò che si prova di bene o male, nel fisico e nel morale”, nel morale… Questa è la prima traduzione che troviamo sul vocabolario di greco antico, il pathos è l’esperienza, ciò che si prova o che si è provato, è proprio ciò che accade (a me o a te), è la sofferenza, il patimento o la pena, la disgrazia. Ma un altro significato molto importante si nasconde dietro questo termine: stato dell’animo agitato, commozione, affetto, ma anche amore, afflizione, dolore e tristezza… Passione! Il verbo correlato (πάσχειν=soffrire) significa provo impressione, sentimento, sensazione, ma anche soffro, provo, sopporto, sono impressionato. Dunque, per tornare al punto di partenza, siamo in uno stato di condivisione delle emozioni, nello specifico della sofferenza, che l’altra persona sta provando, siamo impressionati da ciò che prova, il che comporta uno stato di apertura nei suoi confronti, dunque di comprensione. Abbracciare e condividere il pathos dell’altro ci permette di comprendere l’altro come persona e nel suo momento più debole, perché si trova in uno stato di disagio interiore. Dunque, condivisione e accoglimento, seppure solo per un momento, ma importantissimi, perché aprono la strada alla comprensione di noi stessi. Sulla compassione la filosofia ha una grande storia che parte dai Sofisti fino alla filosofia contemporanea, e ne vengono date spiegazioni e accezioni sia negative che positive, ma si tende, in ogni caso, a sottolineare che la partecipazione alla sofferenza altrui è qualcosa di diverso da questa stessa sofferenza, perché la compassione non significa provare la stessa sofferenza che la suscita. Cosa, questa, molto importante perché ne mette in evidenza il carattere solidale, più o meno attivo, dell’emozione che viene provocata dalla sofferenza di un’altra persona, ma non consiste in una identità di stati emotivi tra chi prova compassione e chi è compassionato. Questo è ovvio perché la situazione che ha provocato la sofferenza, per esempio di un mio amico, non ha provocato la mia, io non c’entro nulla, è tale sofferenza provata, che deriva dalla situazione (che il mio amico subisce), che suscita in me la compassione, e, perché no, anche dolore, ma non è il dolore provocato dalla situazione scatenante, è dolore del dolore, dolore perché lui vive il dolore. Quindi non si deve essere “contagiati” dal dolore altrui, non deve diventare il nostro, come sostiene Scheler, e sono d’accordo, ma è proprio questo che la rende ancora più importante, perché comprendere l’altro attraverso la condivisione di ciò che gli sta provando, pur non provando direttamente la stessa cosa, è un grandissimo atto di amore e di umanità dell’uomo verso l’uomo, è quello che ci rende”essere umani solidali” e la solidarietà è alla base dell’essere umano. Inoltre, a mio avviso, la comprensione dell’altro fa da specchio nella nostra anima e può essere d’aiuto per comprendere noi stessi: se siamo in grado di comprendere l’altro allora possiamo fare lo stesso sforzo nei confronti di noi stessi, guardare la nostra ferita e comprenderla, decostruire la nostra sofferenza per poter “guarire” dai blocchi che ne derivano e andare avanti, crescere. A volte dobbiamo abbattere per poter ricostruire. Ritorna lo sguardo interiore, ma davanti ad uno specchio per stabilire un legame empatico con noi stessi, che ci renda liberi dal peso di un dolore passato, che ci porti alla comprensione e all’accoglimento di noi stessi e delle nostre emozioni, guardarci perché a volte è più semplice immedesimarsi nell’altro. Guardarci e saper guardare il nostro bambino interiore.
Anna Lorenzini.