Capii presto che mi era impossibile resisterle. Pensavo a Raissa, alla sua silhouette, alla sua bocca, alle sue labbra, al suo sguardo limpido, alle pupille, alle sue guance con le fossette, al suo esile collo…
Eppure mi facevo baciare dappertutto, usare, violentare, inquinare a suo piacimento e io lo volevo, mi piaceva, lo cercavo profondamente: non potevo resisterle.
Quante volte, andando a lavoro, lasciando il suo corpo dormiente tra le lenzuola del letto, ho pensato che al ritorno le avrei detto che non ne potevo più, che avrei voluto se ne andasse, che sparisse dalla mia vita.
Mi sentivo contaminato, dipendente e non mi piaceva. Forse come quel tossico che si accorge di star spendendo la sua vita dietro a un veleno, quando capisce che è arrivato al limite, che è allo stremo delle forze e che preferisce soffrire piuttosto che continuare per quella strada.
Eppure tutte le volte, tornavo a casa e rivederla mi faceva stare bene. Sapere che era stata lì ad aspettare il mio ritorno, pensandomi, preparando qualcosa da mangiare solo per me, mi piaceva.
E mi piaceva ancora di più trovarla nuda ad aspettarmi, magari in doccia o distesa sul divano, che si toccava e accentuava i movimenti, in attesa di me e delle mie mani.
A volte la trovavo al pc, con gli occhiali da vista e il suo caschetto biondo, a mandare curriculum e, quando capitava, cercavo sempre di distrarla con qualche bacio sul collo o qualche toccatina qua e là, per farle desistere dal continuare in quella pratica.
Mi piaceva averla a disposizione e avrei preferito non trovasse un altro impegno.
Un giorno non andai a lavoro, avevo una giornata libera, così decidemmo di passare la giornata in giro per shopping, una cenetta e magari un cinema, o qualcosa del genere.
Non erano cose che mi concedevo solitamente. In quel periodo lavoravo molto, facevo tanti straordinari, anche perché lei non lavorava e non poteva di certo contribuire alle spese, quindi mi toccava farlo io per due. Di solito passavamo le giornate libere al mare, o buttati su qualche prato di campagna a chiacchierare, a parlare di niente, a far passare il tempo nell’ozio e poi facevamo l’amore. Ovunque. Non c’era posto in cui non l’avevamo fatto o occasione che avevamo mancato. Dovevamo farlo, e ogni volta era bello. Sporco, sporchissimo ma bello. Io le dicevo che mi faceva eccitare da matti solo a guardarla e lei si faceva guardare, sì che lo faceva. Capace che si allargava un po’ la maglia per farmi scrutare il décolleté mentre guidavo, oppure che, durante un pasto fuori, allungasse il piede per arrivare a sfiorarmi l’interno coscia, oppure che, in mezzo ad altra gente, mi sussurrava all’orecchio di non portare gli slip, o che aveva appoggiato all’interno di essi un vibratore comandabile a distanza, e mi passava il telecomandino facendomi l’occhietto.
Come potevo riuscire a mandare via una del genere? Tutti sognerebbero di frequentare una così. Avevo la ragazza più carina di tutte, completamente persa per me, che cercava di soddisfarmi in qualsiasi modo e che sapeva anche prendersi quello che voleva senza aver bisogno di chiedere. Era illegale. Una Lamborghini in un parco giochi per bambini, una divinità tra la folla di poveri, un’oasi d’alcool nel deserto.
E più passava il tempo più mi ammalavo, più ero tossico di lei, più non potevo farne a meno.
Quel giorno invece eravamo stranamente tranquilli, distesi vicini ma non avvinghiati, e guardavamo il cielo che, tra una nuvola e l’altra, ci mostrava la sua immensa distesa azzurra d’aria pura e fresca.
Così, nel silenzio più assoluto, mentre gli occhi davano dei leggeri sintomi di cedimento e il pensiero stava andando, come spesso accadeva ancora, purtroppo, alle forme del bacino e dei fianchi nudi di Raissa, mi fece una domanda alla quale non riuscii a replicare, tanto non me lo sarei mai aspettato: “Ci sposiamo?”
di Fabio Valerio