In evidenza, in questo racconto, la responsabilità degli esseri umani dietro le atrocità della guerra, una responsabilità collettiva di fronte alla violenza e alla distruzione.
Anna Lorenzini – L.A.Filosofia
“Signori, avete appena sganciato la prima bomba atomica della storia.”
I due uomini si aggiravano sconcertati tra le macerie di cemento, ferro e acciaio che giacevano attorno al Red Cross Hospital. Cadaveri grigi, testimoni di una coscienza distrutta, forse mai esistita, macchiati del rosso del sangue di vittime innocenti, danno collaterale necessario per una pace che da quel giorno non avrebbe più avuto lo stesso significato.
Osservavano il personale medico e gli operatori di soccorso scavare tra le rovine per fornire assistenza alle vittime, trovare qualcuno ancora in vita, liberare una via che consentisse l’accesso all’ospedale dei pochi mezzi rimasti. Volti polverosi, rigati dal sudore della fatica e dalle lacrime della disperazione, ignari di cosa potesse aver provocato una tale distruzione. Esistevano ancora solidarietà e pietà tra gli umani…
Nonostante l’ospedale si trovasse a più di due chilometri dall’epicentro dell’esplosione, aveva subito danni ingenti a causa dello spostamento d’aria incandescente. L’imponente struttura in cemento appariva solida ma molti dei vetri delle finestre erano andati in frantumi.
Il fumo ancora si levava lento verso il cielo, la luce del sole soccombeva tra le nubi radioattive e gli scheletri degli edifici che fino a qualche giorno prima rendevano Hiroshima la città più industrializzata del Giappone.
La Teramachi, la strada dei templi, scomparsa nel nulla, così come la maggior parte delle abitazioni in legno. Rimanevano soltanto le sagome spettrali di alcuni edifici in cemento.
Un sole era caduto sulla terra avvelenando l’aria, l’acqua, le vite di centinaia di migliaia di esseri umani, molti dei quali inceneriti, letteralmente polverizzati. L’onda d’urto successiva aveva raso al suolo il poco che era sopravvissuto nel raggio di quasi un chilometro. La radioattività innescata dalla bomba avrebbe continuato a uccidere negli anni a venire.
“Dio, cosa abbiamo fatto!”
Questo esclamò il puntatore dell’Enola Gay, il bombardiere quadrimotore che aveva appena sganciato la bomba, mentre osservava inorridito la nube a forma di fungo inghiottire la città sottostante. Dio gli rispose fissando nei suoi occhi quell’immagine per sempre, imprimendo nei suoi pensieri le urla delle vittime ogni volta che avrebbe preso sonno.
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L’uomo più piccolo di statura estrasse di tasca un orologio da polso. Il volto appariva magro, emaciato, seminascosto dall’elegante cappello nero Fedora di dimensioni troppo grandi per lui, da far pensare che lo avesse preso in prestito da qualcuno e non certo scelto con cura in qualche negozio. Se lo rigirò sul palmo della mano; la lancetta dei minuti, bruciata dall’esplosione, aveva lasciato un’ombra sul quadrante.
«Segna le otto e diciassette.»
Alzò gli occhi verso il collega, un uomo grassoccio, che lo sovrastava di quasi venti centimetri, con il volto ricoperto da una folta barba e baffi castano scuro. Anche lui portava un cappello nero, modello Trilby, con una tesa più piccola rispetto all’altro, appena rialzata nella parte posteriore. Gli occhiali da sole celavano le penetranti iridi castane, due punte di spillo che comunque non scomparivano, ma si facevano notare sulla grande faccia dell’uomo.
«Lo devi riportare dove lo hai preso.»
«Pensi che con tutti questi morti abbiano interesse dell’ora in cui è esplosa?»
«Penso che farà sì che non se ne dimentichino mai!» Tagliò corto con tono autorevole che non ammetteva repliche.
«Non allieverà le nostre colpe essere empatici adesso. Ci dovevamo pensare prima.»
Il mingherlino si tolse il cappello rigirandoselo tra le dita ossute. Più giovane di quanto apparisse, i capelli corti non tradivano nemmeno un filo ingrigito.
«Ho visto gli uccelli incendiarsi in volo, l’acciaio liquefarsi dal calore, sai? Davvero io… non pensavo…»
«Non dovevi pensarci tu, né io. Non siamo soltanto esecutori senza alcuna possibilità decisionale.»
Il grande uomo si avviò verso l’entrata dell’ospedale. L’odore di carne bruciata si percepiva fino lì, le persone attorno cercavano di non farci caso, troppo impegnate a sopravvivere.
«La guerra però è finita!» gridò l’altro per farsi sentire con tono non troppo convinto, mentre si riposizionava il cappello in testa. Non udendo risposta lo raggiunse, immobile davanti alla porta spalancata del Red Cross Hospital.
«La luce qui scomparirà per giorni e per anni la gente continuerà a morire tra sofferenze indicibili, per effetto delle radiazioni. Pensi che ne sia valsa la pena?»
Rimase in silenzio, ma si chiese se una risposta l’avrebbe trovata la coscienza di chi, quella decisione, l’aveva presa e attuata per ben due volte.
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All’interno dell’ospedale regnava il caos. Le grida di sofferenza si mescolavano al vociferare dei medici che correvano in ogni direzione per soccorrere più vittime possibili. Il pavimento in alcuni punti era scivoloso a causa del sangue ancora fresco che lo macchiava di vermiglio, le più semplici regole di igiene sanitario non potevano essere eseguite, troppe le vittime, le emergenze, i corpi carbonizzati che entravano nella struttura. Ancora nessuno dei medici era conscio dei pericoli che correva riguardo alla radioattività che si stava espandendo nell’aria, aveva invaso i corpi e stava divorando le carni dei sopravvissuti.
I due uomini si guardarono attorno, avrebbero voluto aiutare ma non potevano. Avevano un obiettivo, una missione, e poco tempo per attuarla. Ormai non esisteva alcun modo per rimediare, questa data sarebbe rimasta nella memoria dell’umanità per sempre. Una lacrima solcò il volto del grande uomo, perdendosi tra l’impenetrabile barba.
«Non credevo che tu potessi piangere.»
Il collega lo osservava afflitto. Anche lui sentiva che stava per cedere, un sentimento che nessuno aveva insegnato loro, non sapevano come gestirlo.
«Per la prima volta ho la certezza che la vita, per come la conosciamo, per quanto forte sia il suo ciclo, non riuscirà a rigenerarsi di fronte a questa folle dimostrazione di potenza. Rappresenta la distruzione più totale, il punto di non ritorno, capisci, LB?»
Sussultò sentendosi chiamare così. Avrebbe voluto cancellare per sempre quell’abbreviazione, il nome che gli avevano affibbiato. Una condanna che lo aveva disonorato, per sempre.
«Cosa facciamo…»
«Dillo!»
«No, non voglio! Non è necessario ricordarcelo, ok?» LB volse lo sguardo dal compagno, iniziò a tormentarsi le mani. Il grande uomo si avvicinò a lui e iniziò a urlargli in faccia.
«Dillo! Dillo! Dillo!»
«Vaffanculo, falla finita! Non c’è bisogno!»
«Invece sì! Perché è questo che siamo! Dillo!» lo schiaffeggiò con tutta la forza che aveva, scaraventandolo a terra tra i rifiuti ospedalieri e le bende insanguinate.
«Vaffanculo, FM! Vaffanculo! FM! FM! FM!»
Esplose in un pianto liberatorio mentre l’amico gli porse la mano per issarlo in piedi.
«Adesso, possiamo andare da lei.»
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Salirono le scale fino al secondo piano. Gli inservienti che correvano tra i corridoi non fecero caso a loro. Avevano altro a cui pensare che interrogare due tizi ben vestiti che stonavano completamente con il caos generale. Osservarono dalle finestre divelte il cielo malsano sopra la città. Non avevano mai visto una rappresentazione della natura divenire così malata, mortale.
Voltarono a destra ed entrarono nell’ultima stanza. I lettini erano tutti occupati, alcuni infermieri stavano sistemando le persone ferite sulle brandine, al centro della stanza. Una donna seduta, che dava loro le spalle, aveva bruciature che riportavano il motivo del kimono che indossava durante l’esplosione. Le radiazioni termiche glielo avevano impresso sulla schiena. Una bambina con il volto ustionato dal calore fissava vacua la parete. La maggior parte dei presenti aveva il corpo segnato da devastanti bruciature, le ferite deturpavano la loro pelle.
Si avvicinarono all’ultimo letto della stanza, la bimba di tredici anni che lo occupava li guardò senza mostrare interesse. Aveva dolore su tutto il corpo, non capiva cosa fosse successo e non trovava la mamma.
«Setsuko?» FM si rivolse a lei con voce dolce.
«Siete venuti per la mamma? È morta anche lei? Qui muoiono tutti. Eiji é morto carbonizzato, mi chiedeva l’acqua, mi chiedeva l’acqua…»
Continuò a ripeterlo fino a che non scoppiò a piangere. Era stata ritrovata sotto le macerie di un palazzo in fiamme. LB le toccò la fronte e vide i ricordi con gli occhi della bimba. Il collo si piegò all’indietro, le palpebre si spalancarono, un dolore lancinante gli attanagliò la testa.
La luce del mattino era stata divorata dall’oscurità, un’atmosfera spettrale che sarebbe stata denominata negli anni a venire come “inverno nucleare”. Setsuko si guardava attorno persa, la voce di un soldato la intimava di sbrigarsi, di spingere via le macerie, ma lei non aveva le forze, non capiva cosa fosse successo. Il panico dipinto sul giovane volto non aveva diritto di prendere il sopravvento, se voleva sopravvivere.
La tirarono fuori, il militare parlava di una collina da raggiungere ma non si sentiva in grado, le ferite erano gravi. Vide i corpi carbonizzati delle amiche, pensò che forse non sarebbe stato male morire lì, in quel momento, per non soffrire ancora.
Si guardò attorno, nel buio di quella mattina dove il sole aveva perso la sua battaglia contro la malvagità umana. Figure che sembravano esseri umani camminavano come fantasmi tra le rovine di una città ormai sventrata della propria dignità. I capelli ritti come aculei, i volti gonfi, i corpi ustionati. Ad alcuni pendevano gli occhi fuori dalle orbite, altri tenevano i propri bulbi oculari nel palmo della mano proteso verso il niente. Nessuno correva o urlava, un silenzio irreale dominava tra le vittime dell’esplosione. LB sentiva un solo sussurro: “Acqua… acqua…”
L’inferno, se esisteva, non poteva essere così terribile. A cosa stava assistendo, allora? Si staccò dalla bimba.
«È lei» Disse all’altro. FM annuì, lo sguardo contrito la osservava compassionevole. Le toccò anche lui la fronte, non riuscì a trattenere il pianto.
«Sopravvivrai, piccola Setsuko. Non permetteremo che il demone umano distrugga la tua anima. Diverrai simbolo della lotta contro ogni tipo di arma nucleare, perché tutto questo non si ripeta mai più. Perdonaci, piccola luce di pace, vorremmo non essere mai esistiti.»
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I due uomini si allontanarono. Notarono un registro delle firme dei visitatori sul banco dell’entrata del reparto. Prima che tutto questo accadesse. Prima che il mondo cambiasse per sempre. Presero la penna, uno di quei nuovi modelli che funzionavano così bene rispetto alle stilografiche, e si firmarono.
Little Boy
Fat Man
NOTA AUTORE:
Non ci sono bastati l’olocausto, le foibe, le due guerre mondiali, gli eccidi, siamo sordi a ogni urlo di sofferenza, la storia non riesce a insegnarci alcunché. Non riusciamo nemmeno a chiedere veramente scusa e imparare dai nostri errori; per quanto irripetibili siano, li continuiamo a fare.
“Little Boy” e “Fat Man” sono i nomi dati alle due bombe atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Sono sicuro che se avessero avuto una coscienza, avrebbero chiesto perdono per l’infamia inflitta contro una volontà che non possedevano. L’uomo l’ha fatto? Ha imparato dai propri errori?
Setsuko è reale. Setsuko Thurlow, premio Nobel per la pace, sta ancora dedicando la sua vita contro il disarmo nucleare.
Paolo Bertelli