Era un giorno qualunque, una fredda mattina presto, ma il momento migliore per andare al mercato. Era grande. La schiera dei banchi si estendeva da piazza dei Mirti, percorrendo via dei Platani, svoltando a destra al primo incrocio, fino a piazza delle Peonie. Simbolo della vita popolare di quartiere e luogo di aggregazione, il mercato trasformava i gesti quotidiani in tradizioni, che, una volta scomparse, avrebbero suscitato non poche nostalgie in chi le aveva vissute e le avrebbe ricordate. Perché è il popolo a creare quelle più belle, scegliendo, senza saperlo, il luogo dove rispecchiare se stesso. Il popolo è la storia e a volte la storia “romanzata” che gli piace raccontare. Ma era mattina presto ed era il 1980…
Prima tappa erano i mercati generali per fare rifornimento della merce da vendere e poi si andava a “tirare su” la saracinesca dei banchi. Era questa la routine mattutina di chi lavorava al mercato. Camminando nel mercato, tra banchi fissi e bancharelle mobili, il profumo dei limoni era inconfondibile, i colori della frutta ben messa un dipinto, “frutta fresca, frutta fresca!” Gridava un uomo dal suo banco e la bambina lo guardava incuriosita, sentendosi molto fortuna per non essere andata a scuola ed essere lì, al mercato col papà, intento a vendere la verdura ad una signora.
“Com’è sta verdura, ni? Me dai ddu chili de zucchine?” diceva una donna alta, mora e con una scollatura molto accentuata. “Si, ecco qua!” rispondeva il fruttivendolo, mentre pesava la verdura nella grande bilancia in acciaio, mettendola nella busta di carta marrone e lasciando “qualche pezzo” sul piatto della bilancia, fuori dalla busta. La lancetta aveva fatto il giro e i numeri segnavano i due chili chiesti dalla donna, ma non tutta la verdura sarebbe finita sulla sua tavola. La bambina si era accorta della “dimenticanza” del padre, ma era distratta dal folclore rionale.
Erano gli anni ’80, era la periferia, era il banco dei “fratelli”, quelli famosi per la bellezza e per la furbizia, e non solo. Ogni tanto uno di loro scompariva e scompariva anche qualche bella donna di casa frequentante il mercato. Questa era l’attività della mattina, il pomeriggio erano impegnati in tutt’altra faccenda. Vite consumate quelle cresciute dalla strada, abituate ad arrangiarsi, segnate dagli eventi infantili che non avevano potuto controllare e, da adulti, da scelte sbagliate. Ma in quegli anni, l’inconsapevolezza di quello che si faceva galleggiava sulle vite di molti nascondendo sul fondo le conseguenze. Gli anni degli invincibili sballati che invincibili non erano. Qualcuno era solo un sognatore che, con la radio che cantava Radio Ga Ga, immaginava di essere altrove, qualcun altro assuefatto e perso dentro la sua solitudine che “quell’altrove” ce lo aveva dentro.
Dietro ai banchi, dietro ai profumi e ai colori, sul marciapiede della via, si affacciava un cancello di un atrio nel quale c’era un portone in vetro e ottone. In quel portone c’era il Sat, così era chiamato il SerT (Servizi per le tossicodipendenze), dedicato alla cura e riabilitazione, prevenzione dove possibile, di chi aveva problemi con la droga e altre sostanze. Quel portone si riconosceva, anche le sue facce si riconoscevano e la gente se ne teneva alla larga. Facevano paura, per il loro aspetto, per la loro imprevedibilità, sempre pronti ad uno scippo al volo che potesse svoltargli la giornata. Faceva paura pensare che da un momento all’altro potessero emergere dall’abisso nero per trascinarti giù con loro.
Erano gli anni ’80 di borgata, quando anche in una grande periferie i più si conoscevano tra loro, quando avere due lire rendeva felici, quando la polizia inseguiva sempre gli stessi ladri, come nei cartoni animati, quando il mercato rappresentava le radici sociali e la gioia di una bambina che non era andata a scuola.
Anna Lorenzini.
N.B. I fatti sono di pura invenzione dell’autrice e ogni riferimento a fati, persone o cose è puramente casuale.