Il Festival di Sanremo è uno dei festival musicali più noti e longevi al mondo. Istituito nel 1951, è un pilastro nella storia della musica italiana, una melodia che risuona attraverso il tempo, fatta di tradizione e innovazione. Questo evento, nato come una celebrazione della canzone italiana, ha trasceso il suo ruolo originario, diventando un riflesso della ricchezza e della diversità della scena musicale italiana. Il festival ha avuto inizio nel pittoresco scenario del Casinò di Sanremo, guidato dall’instancabile Giulio Razzi, e da allora è cresciuto per diventare uno degli appuntamenti più attesi dell’anno. Nei decenni successivi alla sua fondazione, ha accolto artisti internazionali, ampliando la sua portata e catturando l’attenzione a livello globale. È diventato una vetrina per nuovi talenti e un crocevia di diverse tendenze musicali, combinando la tradizione con la contemporaneità. Criticato o amato, ciò che lo caratterizza è l’essere non solo palcoscenico musicale, ma anche piazza sociale in cui si riflettono, attraverso le personalità dei cantanti o cantautori, cambiamento e tradizione, consenso e dissenso, polemica e compromesso. Esso rappresenta un palcoscenico non solo musicale, ma anche di riflessione filosofica. Tra melodie e testi, infatti, si celano interrogativi profondi sull’essenza umana, sulle relazioni interpersonali e sul ruolo dell’arte nella società. Spesso introspettive, le canzoni mostrano come la generazione Z sia alle prese con ansie e incertezze in un mondo frenetico ed esplorano il tema dell’esistenza umana, della ricerca di sé, del senso della vita e la paura del tempo.
La sua ampia risonanza mediatica e la sua capacità di coinvolgere un pubblico eterogeneo ne fanno uno strumento di grande portata culturale ed intellettuale e per questo carico di responsabilità nei confronti della società. Se pensato in questi termini, al di là delle canzoni stesse e degli argomenti, diviene una piattaforma ideale per esplorare il complesso rapporto tra individuo e collettività, per affrontare tematiche importanti, quali la ricerca di sé, l’appartenenza a un gruppo e la responsabilità verso il prossimo, la violenza, la guerra e via dicendo. Tutto questo, non solo seguendo “la moda del momento” su un problema attuale, ma stimolando il pensiero critico e costruttivo, una riflessione pratica sull’attualità. Troppo semplice e riduttivo affidare questi temi a monologhi dei personaggi dello spettacolo di volta in volta invitati se non si costruisce una maieutica in merito. D’altro canto, è il festival della canzone e non della filosofia! Ma la musica è emozione, il testo è espressione di un vissuto, immedesimazione del cantante in una storia, è racconto, percezione e significato attribuito al testo. E allora è filosofia, fenomenologia ed ermeneutica, per dirla con Ricoeur[1]. Nel cuore del Festival di Sanremo, dove le canzoni diventano le voci di un’identità collettiva in continua evoluzione, emerge la prospettiva filosofica di Paul Ricœur sulla narratività dell’identità’. Come gli artisti salgono sul palco del Casinò di Sanremo per tessere storie attraverso le note e le parole, la filosofia di Ricœur getta luce su come l’evento musicale si trasformi in un palcoscenico narrativo in cui le vite umane meritano di essere raccontate.
«Raccontiamo delle storie perché […] le vite umane hanno bisogno e meritano d’essere raccontate. […] Tutta la storia della sofferenza grida vendetta e domanda d’esser raccontata.» [2]
Ogni individuo porta con sé una storia unica, un intreccio di gioie, sfide, successi e dolori. Raccontare queste storie è riconoscere il valore intrinseco di ogni esistenza, creando un tessuto comune di comprensione e condivisione. In primo luogo, la sua affermazione richiama l’importanza fondamentale delle narrazioni umane come veicoli per comprendere e dare significato alla nostra esistenza. Il racconto diventa un mezzo attraverso il quale le vite umane vengono esplorate, celebrate e, talvolta, confrontate con le sfide più profonde. Ricœur sembra suggerire che il racconto è una risposta a un innato bisogno umano. L’atto di narrare non è solo un esercizio di comunicazione, ma un’espressione intrinseca dell’umanità. Attraverso le storie, cerchiamo di condividere, capire e connetterci alle esperienze degli altri, creando ponti tra le nostre vite e il mondo che ci circonda. In secondo luogo, la frase di Ricœur rivela la profonda connessione tra il racconto e l’espressione della sofferenza umana. La storia della sofferenza, dice Ricœur, “grida vendetta” e richiede di essere raccontata. Qui emergono domande etiche e morali sulla responsabilità di testimoniare la sofferenza, di renderla manifesta attraverso il potere trasformativo della narrazione. Il racconto diventa quindi un atto di giustizia, un modo di portare alla luce ciò che potrebbe essere altrimenti ignorato o dimenticato.
Da questa prospettiva, più affine alle mie corde, il Festival non è semplicemente un crocevia musicale, ma un palcoscenico intriso di storie umane, un rito che intreccia le esperienze dei partecipanti e degli spettatori, una sorta di ermeneutica collettiva. Le canzoni interpretate non sono semplici esibizioni, ma narrazioni che plasmano e reinterpretano la nostra comprensione condivisa della cultura, dell’amore, della nostalgia e dell’evoluzione sociale. Le melodie diventano ponti attraverso cui attraversiamo le varie fasi della vita, ricordando e reinventando la nostra narrazione personale, mentre simultaneamente ci collegano a una storia più ampia di cui tutti facciamo parte. La filosofia di Ricœur sottolinea l’importanza della narrazione come mezzo attraverso cui le persone costruiscono il senso della propria identità. Nel contesto del Festival, gli artisti diventano narratori, portando in scena le loro storie attraverso melodie e testi che fungono da veicoli di espressione per la complessità delle esperienze umane. In questo contesto, il cantante, attraverso la sua performance, diventa il veicolo attraverso cui le emozioni e le esperienze dell’amore, della passione e della vita sono espresse e comunicate al pubblico. Non dovrebbe, a mio parere, essere lì per se stesso e il suo bisogno riconoscimento (sul riconoscimento è doveroso un capitolo a parte), ma dovrebbe avere consapevolezza del potere delle sue parole e delle sue azioni sulla platea. La sua responsabilità nell’interpretare le canzoni con sensibilità e rispetto per il significato e il messaggio delle stesse è fondamentale per l’impatto emotivo e artistico della sua performance. In quanto personaggio pubblico, assume un ruolo di responsabilità e impegno nei confronti di chi lo ascolta e osserva e questo non può essere un aspetto secondario. Nel libro “Pratiche dell’io”[3] Charles Larmore[4] , scritto nel 1996, tratta dell’io da un punto di vista pragmatico-esistenziale e ne approfondisce l’elemento costitutivo, ovvero la responsabilità. In un ragionamento molto più profondo di quanto non si possa raccontare in questa sede, l’io di cui parla Larmore è un essere pratico, la cui possibilità di scegliere è ciò che meglio lo caratterizza. Coinvolto nell’azione, che in questa luce è un fenomeno sociale ed espressivo, l’individuo si assume la responsabilità di ciò che fa, consapevole che nessuno può farlo al suo posto ed è costantemente impegnato a mantenere la parola data attraverso le decisioni prese. La consapevolezza del proprio ruolo di chi sale sul palco a presentare e di chi ad esibirsi è la vera protagonista per creare uno spettacolo che sia oltre che divertente anche intelligente. L’impegno non esclude la leggerezza se la cultura è la scenografia della società.
D’altro canto, ci sono stati numerosi artisti nel corso della storia che si sono distinti per il loro impegno nel sociale e nella politica attraverso la loro musica e le loro azioni. Artisti che, con il loro attivismo hanno avuto un impatto duraturo sulla società e hanno dimostrato il potere della musica come mezzo di espressione e di cambiamento sociale. Per andare un pochino indietro nel tempo, potremmo citare Bob Dylan e le sue canzoni, come “Blowin’ in the Wind” e “The Times They Are a-Changin'”, sono state considerate inni per il movimento per i diritti civili e il movimento contro la guerra del Vietnam negli anni ’60. E allora, il Festival di Sanremo che vedo io è un evento che coniuga intrattenimento e impegno insieme in maniera unica, non attraverso momenti dedicati, come se la riflessione fosse qualcosa di separato dalla quotidianità e dallo spettacolo. Ma sempre, perché non è sufficiente un monologo per cambiare un modo di pensare pericoloso. Ma il pensiero elevato appartiene a quello che io chiamo “intelletto collettivo”, e non solo del singolo, ed è per questo che ha il potere di trasformare la guerra in pace.
“Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è fatto per essere percepito da qualcuno”[5]
E perché non pensare anche il Festival, di risonanza mondiale, in questi termini?
Anna Lorenzini.
[1] P. RICOEUR (Valence, 27 febbraio 1913 – Châtenay-Malabry, 20 maggio 2005) è stato uno dei più influenti filosofi del XX secolo, particolarmente noto per la sua sintesi di ermeneutica e fenomenologia. La sua riflessione filosofica ha attraversato diverse discipline, comprese la filosofia, la teologia, l’etica e la psicoanalisi, contribuendo in modo significativo alla comprensione umana.
[2] P. RICOEUR, Tempo e racconto, traduzione di it. di G. Grampa, vol. 1, 4ª ed., Milano, Jaca Book, 2008 [1983], p. 123
[3] C. LARMORE, Pratiche dell’io, Meltemi, 2006, Roma; versione originale in francese “Les pratiques du moi”
[4] Charles Larmore è un filosofo statunitense, specializzato in filosofia politica, morale e epistemologia. Ha scritto numerosi libri e articoli su temi come la giustizia, la razionalità, la verità e la conoscenza. Tra i suoi lavori più noti ci sono “The Autonomy of Morality” e “The Practices of the Self”, nei quali sviluppa una teoria dell’autonomia morale e della dignità umana. Inoltre, Larmore ha insegnato in diverse università negli Stati Uniti e in Europa, tra cui la Columbia University, la Université de Paris, e l’Università di Chicago
[5] H. ARENDT, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 99.