Erano passati così tanti anni dall’ultima volta che ci eravamo visti, ma il ricordo di lei ancora non svaniva.
Ormai avevo appeso le cuffie al chiodo e, tra una storia e l’altra, avevo trovato lavoro presso una grande società informatica, come addetto al call center dell’assistenza tecnica. Non era il lavoro dei miei sogni ma gli orari non erano male: lavoravo dalle 9 alle 17,00 inclusa una mezz’ora per il pranzo. Il venerdì staccavo prima, intorno le 15,00 e il sabato mattina avevo solo un paio d’ore di reperibilità al cellulare, in caso si fossero intasate le linee.
Non mi piaceva ma me lo facevo stare bene, anche perché lo stipendio era più alto rispetto a quanto percepito dai miei amici coetanei e c’era la possibilità, facendosi il culo, di fare un po’ di carriera all’interno dell’azienda stessa. Poi, mi aveva detto una persona che aveva lavorato lì prima di me, che quella mansione faceva bella figura nel curriculum, quindi me lo facevo stare bene.
Ogni giorno andavo a lavoro con l’autobus, un po’ perché andare con la macchina in centro era proibitivo per il parcheggio, un po’ perché, se trovavo parcheggio, era sulle strisce blu, quindi a fronte del pagamento del ticket da un euro ogni ora, e questo non lo avrei mai potuto accettare.
Ricordo esattamente il giorno in cui decisi di andare a cercarla.
Avevo ancora 6 giorni di ferie da usufruire e mi avevano detto dalla segreteria che, se non li avessi sfruttati, li avrei persi. Allora con Mirko decidemmo di andare a fare qualche giorno in giro per la Toscana, prima tappa Firenze.
Passammo i primi due giorni nel capoluogo toscano, tra mangiate, bevute e tentativi andati a vuoto di rimorchio (avevo una ragazza all’epoca ma non eravamo per nulla affiatati) quando, parlando col gestore del b&b dove alloggiavamo, ci disse che a Pistoia, a circa quarantacinque minuti di macchina, c’era un bel giardino zoologico e che sarebbe stato carino da visitare. Ci dicemmo che non avevamo di meglio da fare e che, quindi, la mattina dopo avremmo lasciato l’alloggio.
Successe però che, durante il tragitto, lessi su un cartello l’uscita “Prato est”.
Non ci capii più niente.
“Esci!”, tuonai senza fare il minimo cenno espressivo. “Esci da ‘sta cazzo de autostrada!”, urlai girandomi verso Mirko che con gli occhi spalancati, come se avesse visto un pazzo omicida, mise la freccia a destra e rallentando bruscamente, svoltò.
Arrivati al casello si voltò di scatto senza proferire parola; capivo che era confuso.
“Te la ricordi Raissa?”
Accennò un sì mantenendo un’aria più che confusa.
“Quella di Rimini, che mi piaceva…”
“Ah sì, embè?!?”
“Embè abita qua a Prato! Voglio cercarla”.
Con lo sguardo ancora più confuso mi chiese come avremmo fatto a cercarla, se avevo informazioni di dove abitava, un numero di telefono, un’email, un qualsiasi contatto.
“No, ma la Trovo su Facebook”, lo rassicurai.
Cercammo un luogo dove dormire, i giorni rimanenti, su Airbnb mentre tra Google e Facebook cercai un suo profilo, una foto, un qualcosa che potesse indirizzarmi verso un suo contatto, di qualsiasi natura fosse.
Le ore passavano e, tra una birra e l’altra e una mangiata e l’altra, passavano anche i giorni, ma di Raissa non avevo trovato alcuna informazione, se non un vecchio profilo Facebook aggiornato a qualche anno prima.
Almeno avevo qualche sua foto…
Più passava il tempo più Mirko si spazientiva.
Passava le ore a scommettere online, a giocare alle macchinette dei bar o a tentare di rimorchiare qualunque essere femminile gli attraversasse la traiettoria degli occhi, e questo non mi era minimamente d’aiuto; ma almeno mi riusciva di tenerlo a bada, continuando a chiedergli quale fosse la partita successiva o indicandogli un bar con le slot.
Finché il terzo giorno di Prato, il penultimo disponibile, fu proprio Mirko, inconsapevolmente, a sbloccare la situazione. Eravamo in giro per cercare di beccare la ragazza, in un vano ultimo tentativo, per strada a fare una passeggiata, magari a portare a spasso il cane, o a fare spesa, quando il mio amico entrò di scatto in un bar.
“Oh, se non me pio er caffè me butto pe’ terra!”, se ne uscì e si diresse verso il locale.
Lo seguii, anche a me un caffè non sarebbe dispiaciuto, così arrivati al banco, incrociai con lo sguardo il barman.
“Ragazzi, due caffè?”, ci chiese.
Rimasi a guardarlo qualche secondo mentre si destreggiava tra tazzine e piattini, finché non lo riconobbi.
“Ciao!” gli dissi, come se non lo avessi salutato prima e lui, con disinvoltura, si voltò nuovamente come se fosse entrato un altro cliente.
Quando non vide nessuno mi guardò meglio, probabilmente pensava fossi un po’ toccato.
“Sono Giovanni il dj”, gli dissi. Non ricevendo riscontro aggiunsi: “dj Giògio… Giorgio”.
“AAAhhhh ecco perché mi sembravi un viso conosciuto!” esclamò. “Come stai? E che ci fai qui?”
“Sai che c’è, sono qui per cercare tua cugina”, affermai tempestivo, aspettando almeno una cinquantina di domande sul come ero riuscito a trovarlo, in quale locale suonavo, che musica sarebbe andata ecc…
Eppure la sua risposta mi spiazzò.
“Aspetta che chiamo Raissa”, mi disse e prese il telefono.
Si allontanò, entrando in una porta che probabilmente portava alla cucina e lo sentii parlare con calma, a voce bassa.
Quando tornò davanti a noi disse: “Se non andate via oggi, domani mattina vorrebbe incontrarti – disse, e aggiunse – questo è il suo numero, scrivile subito”.
Sentivo il cuore esplodermi, mentre le scrivevo un sms. Non ero riuscito a memorizzare il numero e scriverle su whatsapp dalla fretta quindi scelsi la via più rapida.
Mi rispose dopo pochi secondi, dandomi l’orario e il luogo dell’incontro, che capii poco dopo essere a circa quindici minuti di macchina dall’appartamento in cui eravamo alloggiati.
L’appuntamento era alle undici di mattina, in un piazzale, così lasciammo l’appartamento per vacanze intorno le dieci e trenta e ci fiondammo nel luogo prefissato.
Mirko, lasciatomi, si allontanò con l’auto ma si appostò, per curiosità. Sarebbe sicuramente andato in cerca di un bar o un punto sisal, immaginavo, una volta arrivata.
Ero lì, solo, ad aspettare la ragazza più bella del creato, che senza battere ciglio aveva accettato di incontrarmi e che non vedevo da così tanto. E tra noi c’era stato così poco… Ero estremamente emozionato e impaziente, tanto da mangiarmi voracemente le unghie e camminare avanti e indietro, aspettando di vederla comparire da un momento all’altro.
Per smaltire un po’ l’ansia presi il telefono, le cuffiette e misi su qualcosa che mi potesse dare la carica. Ovviamente andai sul sicuro: “Harder, Better, Faster, Stronger”, sempre dei miei compagni di viaggio Daft Punk
Quando la sua sagoma si fece strada tra le siepi del giardino antistante il piazzale, cominciò a mancarmi il fiato e sentii una stretta all’altezza della parte più bassa del costato. Era ancora più bella di come la ricordavo. Tolsi al volo il telefono a la scrutai fissandone le forme.
Era cresciuta. Non di statura, era già alta, ma emanava una diversa maturità; sembrava più donna, più sicura di sé, più bona…
Mentre si avvicinava notai la sua camminata elegante, seppur indossasse scarpe basse e avesse un semplicissimo paio di jeans, una maglietta bianca con il colletto ed una borsa a tracolla sullo sportivo.
Il suo sorriso si allargò notevolmente avvicinandosi e non distolse mai lo sguardo verso la mia direzione. Non era la Raissa che avevo conosciuto.
“Ciao Giò”, mi salutò, accennando una smorfietta e arricciando il naso. La riconobbi in quel frangente.
“Ciao”, risposi semplicemente. Panico.
Si avvicinò, mi prese il braccio e mi fece fare mezzo giro su me stesso, come se fossimo grandi amici.
“Dai andiamo, che ho un po’ di giri da fare e intanto parliamo. Dimmi un po’… Che ci stai a fare qui?”. Rise.
Mi sentivo in completo imbarazzo, totalmente in bambola, sbatacchiato in balia degli eventi.
“Ti sono venuta a cercare”, ciancicai, con voce sommessa. Allargò ancora di più il sorriso; era divina. Era una dea che aveva scelto una maledetta vita carnale, giusto per distruggere quei cinque/seicento umani maschi che l’avrebbero incontrata nel loro triste tragitto e che non avrebbero mai più potuto togliersela dalla testa. Come era successo a me.
Le chiesi come stava, che cosa era successo quel periodo del secondo anno in riviera, se aveva ancora casa lì, se con Elisa si vedevano ancora, se… Se si ricordava del nostro bacio.
Quando dicono che, per la pressione del sangue dovuta all’eccitazione, c’è il rischio che esca il sangue dal naso… Beh io da quel momento in poi ho cominciato a crederci.
Il naso mi batteva forte, sentivo che la pressione aumentava ogni minuto e sono sicuro del fatto che il cuore andava almeno a tre volte la normale velocità.
Parlava e le orecchie fischiavano, mi guardava e mi si stringeva la gola, mi teneva il braccio appoggiandosi con la testa sulla spalla, con fare scherzoso e la schiena mi sudava. Oddio quanto era bona…
Si ricordava del bacio, sì. E arrossì ammettendolo. E mi sembrava, se possibile, ancora più bella.
Con Elisa le cose si erano molto freddate; adesso erano allo stadio del saluto con risatina. Ma non si sentivano più, da anni.
L’appartamento a Rimini era stato venduto e le era dispiaciuto non salutarmi. Purtroppo ammise di aver sbagliato a baciarmi, sbagliato nei confronti di Elisa.
“Mi piacevi, e pure tanto! Con quelle cuffie – si interruppe portandosi la mano sulla bocca – e con quella passione per la musica che passavi”, disse sorprendendomi ed eccitandomi un po’.
“Ma Elisa mi aveva detto già dal primo anno che le piacevi, e io non mi sarei dovuta avvicinare”.
La guardai fissa negli occhi, lei mi guardò lei anche lo fece, per qualche istante, o forse per un secolo, non lo so, fatto sta che la baciai. Così, di colpo, d’istinto, senza farmi problemi, senza pippe mentali.
E lei si fece baciare. Con la lingua, bene, aderenti uno con l’altra, con le sue labbra gonfie che potevo succhiare e leccare, e la sua lingua che riconobbi perfettamente dopo tutto quel tempo: calda, piccola, timida, ma dolcissima. E i nasi si strusciavano e gli occhi si cercavano, a volte. A volte si chiudevano appena, a volte si giravano verso l’alto in segno di completa estasi. “Che sapore ha quando arriverà”, cantano i Negrita: io lo so.
Sarà durato 10, forse quindici minuti e, se possibile, mi era sembrato ancora più bello del primo bacio scambiatoci in discoteca, anni prima.
Finché, con entrambe le mani, poggiate sulle mie spalle, mi colpì con i palmi per allontanarsi di scatto.
“Non posso”, sospirò.
Rimasi un attimo ad osservarle il viso per cercare di capire quale fosse il motivo, perché aveva voluto far terminare quel momento di completa goduria e soprattutto non capivo se non le stava piacendo.
Perché non poteva? Non dissi nulla, aspettando una sua spiegazione che non si fece attendere.
“Sono fidanzata Giorgio, e forse anche incinta”, disse guardandomi diritto nelle pupille, con uno sguardo che non avevo mai visto prima.
Rimasi a fissarla, mentre tutta una serie di immagini mi passava per la testa e lei diceva qualcosa del tipo che lo amava, che il ciclo, che questo mese, che di qua, che di là; ma io non ero minimamente intenzionato ad ascoltarla.
Preferivo pensare al primo sguardo di sfuggita, di anni addietro, al suo corpo in short e top troppo corto, alla sua coda, alle spalle, a quel suo appoggiarsi alla console e lanciarmi un’occhiatina dolce, alla sua camminata, al sorriso che aveva fatto poco prima, non appena incontrati, a quel bacio, alle sue labbra, alla sua lingua…
Si alzò, con le lacrime agli occhi, impaurita per l’essere probabilmente incinta e non sentirsi pronta a quel passo, ma anche imbarazzata per il bacio appena dato e al fatto che si fosse sempre reputata fedele. Mi disse che sarebbe tornata a casa, di non cercarla più, che il tempo per noi era iniziato e finito con il primo bacio in discoteca e che non ci saremmo più rivisti.
“Ti voglio, vieni via con me”, le dissi quando smise di parlare. Mi guardò con sufficienza, come se avessi peggiorato la situazione e tornò a piangere, questa volta abbondantemente. Si strofinò gli occhi con un fazzoletto che teneva in tasca struccandosi ancora di più e, con le macchie di rimmel nere sotto gli occhi, rispose che non sarebbe potuta mai venire a Roma, lasciare il suo ragazzo, che oltretutto poteva essere il padre di un suo probabile figlio.
“Addio Giò”, disse e scappò via, correndo, verso la direzione dalla quale era arrivata.
Piansi. Piansi a dirotto per un po’. Avevo sfiorato il cielo ed ero bruscamente ricaduto al suolo. E faceva male.
Una volta ripresomi, quel tanto che bastava da non far sgorgare copiose lacrime e sembrare ridicolo, chiamai Mirko che, con fare sbrigativo, mi disse di raggiungerlo poco distante perché era in atto un tentativo importante di rimorchio.
Pensai che camminare avrebbe potuto aiutarmi a smaltire un po’ l’angoscia, e infatti così fu. O per lo meno non zampillavo più come una fontana.
Arrivai nel luogo descritto dal mio amico e lo trovai di spalle, vedendo che gesticolava col suo fare piacione, ridicolo. Dalla mia prospettiva non riuscivo a vedere la ragazza, che era coperta dal corpo piazzato del coattone, così la curiosità ebbe la meglio.
Mi avvicinai e, non appena, scorsi la ragazza, rimasi impietrito come se avessi visto mia nonna morta versione fantasma.
Lo stesso fece lei non appena mi vide scorgere da dietro Mirko e lo stesso fece lui, captando l’imbarazzo che c’era nell’aria e osservando le nostre mascelle penzolanti.
di Fabio Valerio