Prese un B&B in centro, nel quale rimase qualche giorno, il tempo che pensava potesse servire per sistemare le cose con Elisa e con me, senza conoscere, però prima di partire, la situazione disastrosa che aveva trovato al rientro.
Ovviamente, a quel punto, di parlare con Elisa non ne aveva più voglia, ed era capibile da un lato.
Dall’altro mi fece rendere conto di quanto idealizzata fosse, ai miei occhi, quella ragazza. Che altro non era che una bellezza incredibile, un fascino irresistibile, una sensualità disarmante, ma che includeva anche tanti difetti, come tutti gli altri esseri umani al mondo.
Basta inseguirsi anni per conoscersi? Non sono bastati quasi quattro anni con Elisa per capirla… Considerando che, oltre le corna, mi aveva lasciato nascosti tutti gli strascichi del rapporto con l’ex amica. E chissà se ci fossimo sposati cosa sarebbe successo. O se non avesse abortito. Chissà…
Dopo i primi giorni passati al B&B e continuando a vederci da amici, le proposi di rimanere qualche altro giorno da me. Non ci eravamo neanche ribaciati, ma non mi dava fastidio che occupasse un po’ gli spazi lasciati vuoti dall’ombra di Elisa, in casa, così le chiesi cosa ne pensasse. Accettò, sfortunatamente.
I giorni passavano tranquilli e io mi preoccupavo di renderle la giornata piacevole, tra un pranzo fuori, un’attività serale, una nottata passata a chiacchierare e qualche attenzione che a Elisa non avevo mai dato. Mi stava piacendo prodigarmi e donare del tempo di qualità a qualcuno, invece di riceverne solamente.
Finché una sera, al rientro da una passeggiata, in attesa di trovare le chiavi per rientrare in casa, sul pianerottolo, la baciai. Entrammo in casa come dei forsennati e, gettando tutto a terra, inclusa una lampada e un bicchiere rimasto sul tavolino, ci mangiammo, nutrendoci ognuno della pelle dell’altro, leccandoci, baciandoci, toccandoci ovunque. E facemmo l’amore, l’amore vero, come non l’avevo mai fatto in vita. Non particolarmente porco, non particolarmente performante o esteticamente migliore di tante altre volte, ma con la mente e la pancia sincronizzati, come se le esigenze di uno venissero a contatto con l’offerta dell’altro, in uno scambio di domanda e offerta bilanciati, dove il mio piacere compensava appieno il suo, e la ricerca nel far godere venisse ripagata esattamente alla pari.
Un turbinio di dare avere, l’euritmia perfetta del piacere.
Ricevetti proprio il mattino dopo un messaggio vocale dal signor Roberto della IIESSEDI, chiedendomi di presentarmi nella loro sede un pomeriggio di quella settimana, previa conferma.
La sede centrale si trovava a pochi chilometri dal G.R.A., così decisi di andare proprio quel pomeriggio, e lo chiamai; Raissa decise di accompagnarmi.
Arrivati, il sig. Roberto mi fece accomodare in un ufficio piccolino ma accogliente, con piante verdi e candele. Parlammo per una decina di minuti, per i convenevoli, poi si espose:
“Cerchiamo lei, sig. Giovanni, perché dal curriculum che ci ha fatto pervenire tempo fa, pensiamo che lei potrebbe essere in grado di occuparsi di molteplici aspetti: dall’informatica, a un minimo di grafica, è talentuoso nell’improvvisare, cosa che ci ha confermato la sua attuale ditta e sembra sia molto bravo anche nel problem solving. A proposito di questo ultimo aspetto, le devo dire con franchezza che nelle ultime settimane l’abbiamo chiamata ripetutamente al call center del suo attuale impiego, chiedendo espressamente di lei, per vedere come se la cavava con clienti ostici. Qui non si occuperebbe di clienti, ma di personale dipendente che ha problemi nel proprio ambito lavorativo. Sono situazioni delicate, se la sentirebbe?”
Aggrottai le sopracciglia, come per dire: “Ma come potrei decidere così in fretta? Non mi ricordo neanche di aver mandato quella domanda…”.
“Sì”, risposi, chiedendo poi quando avrei dovuto cominciare, se avessi dovuto fare una prova e gli orari di lavoro.
“E non vuole sapere quanto guadagnerà? Il 120% in più di quello che guadagna ora, la vogliamo con noi sig. Giovanni”.
Mi alzai in piedi, allungai la mano e la strinsi forte guardandolo negli occhi, finalmente venivo pagato adeguatamente, in compensazione a tutto il culo che mi ero fatto in quegli anni, a vuoto. Ma la cosa che più mi eccitava era il fatto che, essendo fuori il raccordo la sede, potevo finalmente andare a lavoro in auto, anziché con il bus, che tanto odiavo.
Salutai e tornai all’entrata principale, dove c’era Raissa ad attendermi.
“Allora? Ti hanno preso?” mi chiese immediatamente. Feci di sì con il capo e ci avvicinammo al portone, per uscire.
Un centesimo di secondo dopo non me ne sarei accorto.
Invece il caso ha voluto che, mentre passavamo, una folata di vento spostasse la tenda della finestra che si era attaccata a un quadretto sulla parete e la scoprì, mostrandone il contenuto.
“Il bellimbusto”, sussurrai tra me e me, spalancando gli occhi.
Quella notte non riuscii a dormire bene. Il bellimbusto, il capo di Elisa, era affisso su un muro della sede per la quale stavo andando a lavorare. Non riuscivo a spiegarmelo.
Presi due settimane di ferie, nel primo periodo disponibile, dal mio vecchio lavoro e iniziai a lavorare per la IIESSEDI, così che nel frattempo avrei avuto tempo per dare le dimissioni, seguendo le giuste tempistiche per non perdere la liquidazione e per far combaciare al meglio il tutto.
Raissa continuava a farmi da ragazza, pur non avendolo mai ufficializzato.
Così un giorno venne Mirko a cena, anche per capire come ci trovavamo e per sapere di questo lavoro.
Quando fummo in disparte gli parlai del bellimbusto, ma lui non mi diede troppo retta, si spizzava Raissa come se girasse nuda. Ogni tanto dovevo farlo tornare in sé con qualche scapaccione sulla nuca.
“Bella è?”.
“Ammazza cì, pure mejo de come me la ricordavo”. Gli chiesi come aveva fatto a riconoscerla che a Prato l’aveva appena scorta e l’aveva vista giusto un paio di volte in discoteca, tanti anni prima.
“Aò, sarà che io la sorca…” e fece il gesto di annusarsi l’indice. Un uomo delicato.
“Va beh ma allora che fate, state insieme? E poi che farai a lavoro se è come pensi? Te scopi pure Elisa? Oh te lo dico, a me se ce casca mica je dico de no”.
Lo tranquillizzai con un sonoro ceffone sul collo, sussurrandogli all’orecchio che gli avrei staccato parti del corpo dolorose, se non avesse fatto il bravo.
Quella serata, tra il goliardico e l’amichevole, passò liscia, ma alla sera, al momento della messa a letto, gli occhi non si riuscirono a chiudere. L’immagine di Elisa seduta su quella scrivania a gambe aperte, non riuscivo a togliermela dalla testa. Quattro anni, pensavo. Quattro anni di tossicodipendenza. E ora che ho accanto la soluzione, la liberazione, la ragazze dei miei sogni, vorrei drogarmi ancora. Pensavo ancora alle sue mani, al suo caschetto biondo che si abbassava verso i miei jeans, al suo culo costretto nei leggins attillati. Proprio come un maledetto drogato ci pensavo ancora, e ancora, e ancora, e non potevo smettere di toccarmi, pensandola.
Il lunedì del nuovo lavoro arrivò presto, così mi presentai mezz’ora prima per familiarizzare con gli altri colleghi e con il nuovo ufficio.
Il problema è che quando arrivai, trovai alla segreteria Elisa.
“Che ci fai qui?”, chiese balzando in piedi dalla sedia.
“Che ci fai tu qui? Mi hanno assunto, mi hanno chiamato tempo fa e ho fatto il colloquio. Ma tu che centri con questa ditta?”.
Capimmo, dopo una breve spiegazione, che il curriculum lo mandò Elisa, tempo addietro, sentendomi lamentare sempre del mio lavoro, quando seppe che si stava per liberare un impiego importante.
Entrai repentinamente nell’ufficio di Roberto senza bussare e gli dissi senza pensarci: “Non posso lavorare per le merde, mi dispiace. Non mi riferisco a lei, ma al suo principale”, e mi allontanai consapevole di essermi sfogato dando della merda al bellimbusto davanti ai suoi dipendenti, ma anche che da quel giorno sarei rimasto senza lavoro.
Incrociai di nuovo lo sguardo di Elisa, uscendo e, in qualche modo, sentii una specie di sollievo a vederla in forma. Tanto in forma.
di Fabio Valerio